30.12.09

CULTURA
Emozione Boltanski
di Fabio Gambaro
Due importanti mostre a Parigi nel 2010. Il grande artista racconta il suo mondo di memoria e oblio
Colloquio con Christian Boltanski


Christian Boltanski Invecchiando un artista si mette ad assomigliare alle sue opere. Che poi è un modo per proteggersi, perché è più facile essere un'opera che un essere umano... A 66 anni, Christian Boltanski non rinuncia a sovrapporre arte e vita, spiazzando l'interlocutore, come fa spesso con le sue emozionanti installazioni, capaci di sorprendere e trasformare radicalmente lo spazio artistico. Francese, uno dei maggiori artisti viventi, le sue opere sono un invito alla meditazione, a gennaio Boltanski sarà al centro della scena artistica, con due eventi. Dopo Anselm Kiefer e Richard Serra, sarà lui il terzo artista invitato dalla rassegna 'Monumenta' a confrontarsi con i 13.500 metri quadri del Gran Palais, dove, dal 13 gennaio al 22 febbraio, proporrà una spettacolare istallazione intitolata 'Personnes', incentrata sul tema della casualità ineluttabile della morte. Contemporaneamente, al museo Mac/Val, dal 15 gennaio al 28 marzo, presenterà 'Après', una stupefacente città fantasma nella quale i visitatori saranno invitati a inoltrarsi nelle tenebre dell'alidilà. Boltanski ce ne parla nel suo atelier alla periferia di Parigi, uno spazio spoglio dove lavora in solitudine, senza assistenti, lasciando maturare lentamente le sue opere. Negli anni ha sfruttato le soluzioni più diverse, dalla pittura alla fotografia, dal cinema all'assemblaggio di oggetti, dai video alle grandi istallazioni. "Nel mio lavoro lo spazio è un interrogativo da risolvere. Mi interessa costruire percorsi, dove l'osservatore non sia davanti all'opera d'arte, ma dentro l'opera, sprofondato in un universo in grado di sollecitare tutti i suoi sensi", spiega Boltanski, che per l'anno prossimo sta anche preparando un libro insieme a Daniel Mendelshon, l'autore degli 'Scomparsi' (Neri Pozza). "L'istallazione al Grand Palais sarà come un'opera lirica, in cui l'architettura avrà il ruolo che tradizionalmente è della musica. Al centro ci sarà una grande gru, il cui braccio si muoverà sopra una montagna di vestiti. Al Mac /Val invece allestirò un labirinto: i visitatori si perderanno e saranno sollecitati, anche corporalmente. Le due istallazioni sono come due gironi danteschi. 'Personnes' è l'ingresso nell'aldilà, la fabbrica della morte dominata dalla casualità, 'Après' rappresenta invece il limbo. Sarà popolato di manichini che interrogheranno i visitatori sul passaggio dalla vita alla morte".


Il tema della morte la ossessiona.
"Quando ero più giovane, lavoravo sulla morte degli altri. Invecchiando m'interesso alla mia futura scomparsa".

È per questo che ha venduto la registrazione della sua vita a un collezionista in Tasmania?
"È una scommessa con il diavolo. Il collezionista è uno scommettitore. E io invece di vendergli un'opera, ho preferito scommettere con lui sulla mia speranza di vita. Da gennaio, una telecamera filmerà 24 ore su 24 tutto quello che accade nel mio atelier, fino al mio ultimo giorno di vita. Tutto il materiale registrato sarà di proprietà del collezionista, che lo potrà utilizzare dopo la mia scomparsa. La registrazione della mia vita artistica sarà la mia ultima opera. È come se gliene vendessi la nuda proprietà, contro un vitalizio mensile. Visto il prezzo complessivo che abbiamo stimato, se muoio prima di otto anni, il collezionista ci guadagnerà. Se invece vivo più a lungo, il guadagno sarà mio. Lui è sicuro di vincere. Vedremo. E poi, tutta la mia vita artistica è stata una battaglia contro l'oblio, benché sapessi quanto questo tentativo fosse vano. Nasce da qui la mia riflessione sulla memoria, cui ho dedicato molte opere. Ad esempio l'istallazione per il Museo per la memoria di Ustica, dove, più che ricordare il passato delle vittime, ho cercato di conservare la memoria del loro futuro spezzato".

Confrontarsi con la memoria storica è più difficile che lavorare sulla memoria privata?
"Sono nato nel 1944, mio padre era ebreo e durante tutta l'infanzia e l'adolescenza ho sempre sentito parlare della Shoah. Avevamo l'impressione di essere dei sopravvissuti. Viene da qui la mia ossessione per i morti, gli scomparsi, l'oblio. Le mie istallazioni sono monumenti a coloro a cui nessuno dedica mai un monumento: le persone comuni. Cerco di conservare la piccola memoria quotidiana di queste persone, fatta di fotografie, oggetti, come le scatole di biscotti. Tutti hanno diritto di essere ricordati".
Nasce da qui l'idea degli 'Archivi del cuore'?
"Per rendere omaggio all'unicità di ciascuno, mi sono messo a registrare il cuore di molti individui. Oggi possiedo le registrazioni di 30 mila battiti cardiaci, e nei prossimi mesi saranno di più. Durante le due mostre di Parigi, spero che molti spettatori accetteranno di lasciarmi registrare il loro ritmo cardiaco. Tutte le registrazioni saranno affidate a una fondazione che si trova in una piccola isola giapponese, dove chiunque potrà andare ad ascoltarle. Tra qualche anno molti di questi battiti cardiaci saranno tutto ciò che resta di persone scomparse. Il viaggio verso l'isola giapponese potrà diventare così una sorta di pellegrinaggio per ascoltare il cuore di una persona cara".

In quale misura un'operazione come questa è un gesto artistico?
"Non m'interessa che un'opera o un'istallazione sia bella o meno. Più che allestire un'esposizione, penso a fabbricare storie concrete, partendo da una realtà visiva e sonora. Il mio gesto artistico è sempre l'inizio di un racconto, di una parabola. Più che all'arte tradizionale, si avvicina a una certa tradizione teatrale, quella di Tadeusz Kantor e Pina Bausch, che sono per me due punti di riferimento fondamentali. Viene dallo spettacolo anche l'idea di un'arte effimera che non si rinchiude nei musei. Le mie istallazioni alla fine vengono distrutte, non possono essere appese a un muro. Mi piacerebbe però che restassero nella testa di chi le ha viste".

Lei è un autodidatta che ha iniziato a dipingere giovanissimo. Oggi nel suo lavoro resta qualcosa di quello spirito iniziale?
"Penso di sì, perché nelle mie opere pongo interrogativi semplici ma essenziali, mi faccio le domande che si fanno tutti. Non ho una grande cultura e ho letto molto poco. Ci sono artisti che lavorano soprattutto sulla vita e artisti che lavorano soprattutto sull'arte. Manet e Monet ne sono i due migliori esempi. Sono due artisti geniali, ma hanno due approcci diversi. Io mi colloco dalla parte di Manet, m'interesso più alla vita che alla riflessione sulle forme. Mi piacerebbe essere un artista popolare, dato che non mi rivolgo solo a coloro che conoscono la storia dell'arte. Per avvicinarsi alle mie opere non c'è bisogno di sapere che sono un artista postconcettuale della fine del Ventesimo secolo. L'arte deve solo trasmettere emozioni e suscitare interrogativi. A tutti, senza distinzioni".

(17 dicembre 2009)

23.12.09

IDEE

Brevettato un computer fatto con materiali che non inquinano.

In Arrivo il PC Biodegradabile


Un computer fatto solo di cellulosa e chip biodegradabili. E' stato soprannominato recycled-paper-laptop ed è un pc che rispetta l'ambiente. Il suo ideatore, Je Sung, Park, ha progettato infatti il laptop applicando i principi delle macchinette fotografiche usa e getta e dei cellulari.
Ha realizzato così un portatile che funziona grazie a componenti bio a ha una scocca di carta riciclata disposta a strati, ognuno dei quali può essere sostituito. Per ora è solo un progetto, ma presto sarà commercializzato. Un'alternativa green, ma adatta ovviamente solo a chi usa il notebook occasionalmente e non pretende prestazioni elevate.
(c.d.i)

21.12.09

Ponte sullo Stretto, il grande spot. L'avvio ai lavori. Ma è bluff
di Jolanda Bufalinitutti
Un’unica grande via trans/europea che da Berlino arriva a Palermo, scavando il Brennero e gettando l’avveniristico ponte con tremilatrecento metri di luce sullo Stretto. Sogno ingegneristico ed economico per unire la Sicilia al continente ma, come dice uno spot sul gioco responsabile, «bisogna sognare senza illudersi». Altrimenti il risveglio potrebbe essere brusco e la scommessa foriera di cattive sorprese: «Attenti a non unire due cosche anziché due coste», mette in guardia la rete «No ponte». A scendere dal mondo dei sogni con i piedi per terra dovrebbero aiutarci gli studi preliminari (1986 e 2003) che proiettavano le loro ipotesi al 2012.

«Ma ormai ci siamo» osserva Gaetano Giunta, che è stato presidente della commissione sul Ponte del consiglio comunale di Messina. «Oggi quelle previsioni le possiamo confrontare con ciò che è successo». Le previsioni sulle magnifiche sorti e progressive dell’economia siciliana stimavano 8 milioni di passeggeri sullo Stretto nel 2000, 9 milioni 700mila nel 2012 (un aumento del 20 per cento su base annua nel caso di una crescita economica bassa) oppure 12 milioni 300mila in caso di crescita economica alta (un aumento 52%).

Queste stime si sono rivelate sbagliate per più motivi. Purtroppo la crescita economica non è stata quella prospettata: gli estensori dello Studio di impatto ambientale ipotizzavano che il Pil sarebbe cresciuto del 4,4% nell’ipotesi migliore e dell’1,7%, nell’ipotesi peggiore. «E ci marciavano - sostiene Gaetano Giunta - perché il traffico passeggeri non cresce di pari passo con il Pil». Come sono andate effettivamente le cose? Nel periodo 2001-2007 l’economia siciliana è cresciuta dello 0.9 % e quella calabrese dell’1%, l’anno migliore è stato il 2001 (2,8%), dal 2002 in poi lo sviluppo è stato sempre inferiore a quello del Centro nord.

Merci via mare Ma, in tutti questi anni, che le cose andassero bene o male, il traffico marittimo delle merci sullo Stretto è sempre diminuito mentre è cresciuto l’export via mare da Palermo, Trapani, Catania, Messina e, ovviamente, da Gioia Tauro. È per mare che le merci arrivano da e per il Nord e, si presume, tanto più si svilupperanno negli anni in cui il gigantesco cantiere metterà sottosopra Scilla e Cariddi. Chi è che fa la spola nei traghetti dello Stretto? Oltre ai pendolari fra Messina e Reggio (poco trans/europei) ci sono i “padroncini”. I possessori di un furgone o camioncino che portano la merce da paese a paese: un traffico residuale che difficilmente giustifica la Grande Opera in Project Financing. Chi mette i soldi dovrebbe poter rientrare attraverso i pedaggi, ma se il traffico non giustifica l’opera, allora molto difficilmente si troveranno forze imprenditorialmente sane disposte a rischiare i 3.300 milioni di euro richiesti.

Tutto questo alimenta due tipi di preoccupazione. La prima: il Ponte potrebbe rivelarsi una grande occasione di riciclaggio per le mafie delle due sponde sinergicamente interessate al controllo del territorio, alla copertura del traffico di droga , alla gestione dei posti di lavoro. E ci sono attività come il movimento terre, gli espropri, il ciclo del cemento e i servizi ai cantieri che sono particolarmente a rischio perché settori tradizionalmente infiltrati da organizzazioni. La seconda: i costi sono ora ripartiti al 40% per lo Stato e al 60% per i privati. Ma se il Ponte fallisse chi si assumerebbe il passivo? Alla fine l’intero costo potrebbe finire a carico del debito pubblico e dei contribuenti.

21 dicembre 2009

9.12.09

Continua a calare la Borsa
di Atene e l'euro si indebolisce

ATENE
Il declassamento del debito sovrano della Grecia e la ristrutturazione dei 26 miliardi di dollari di debiti di Dubai World creano allarme sui mercati. I timori per Grecia e Dubai frenano le Borse europee e fanno calare i listini asiatici, con Tokyo che perde l’1,3%. Anche l’euro ne risente e scende sotto quota 1,48 dollari, toccando in mattinata un minimo di 1,4670 dollari. In Grecia il ministro delle Finanze, George Papaconstantinou assicura che non c’è nessun rischio di default. «Ci stiamo muovendo nella giusta direzione per rassicurare i mercati e i cittadini» dice il ministro, in un’intervista alla tv Bloomberg, dopo che ieri Fitch ha declassato a 'BBB+' il debito sovrano della Grecia, portando l’outlook a negativo e oggi la stessa Fitch ha messo tutta la finanza strutturata della Grecia sotto osservazione con implicazioni negative.

Papaconstantinou comunque getta acqua sul fuoco e nel suo intervento ricorda che il paese, pur contando sull’ombrello dell’Ue, punta sulle proprie forze per superare la crisi. «La Grecia conta sulle proprie forze - dice il ministro - Non aspettiamo l’arrivo di un salvatore». «Posso assicurarvi - aggiunge - che il governo farà tutto quello che è necessario per recuperare la credibilità persa». «Per il momento - dice ancora il ministro - stiamo chiedendo soldi in prestito a un prezzo più alto, ma non c’è carenza di liquidità sui mercati». Intanto crescono i timori per la crisi di Dubai. La paura è che i debiti a rischio siano quasi il doppio dei 26 miliardi di dollari che Dubai World intende ristrutturare. Si parla di quasi 47 miliardi di dollari, una cifra che coinvolgerebbe anche ad altre società finora rimaste ai margini della temuta insolvenza. Finora i debiti da ristrutturare sono ufficialmente 26 miliardi di dollari e riguardano soprattutto il colosso immobiliare Nekheel, le cui passività nel primo semestre sono cresciute del 7,2% a 20 miliardi di dollari e le cui perdite semestrali ammontano a 3,65 miliardi di dollari. Tuttavia ci sono almeno altre 5 società che potrebbero annunciare a breve la propria impossibilità ad onorare le scadenze sui debiti. Si tratta di Istithmar, Draydocks, Dubai Financial, Dubai Holding Investment e Dubai International Capital.

In questo caso i debiti a rischio salirebbero a quasi 35 miliardi di dollari. Intanto la Istithmar World, il colosso che detiene le partecipazioni internazionali di Dubai World, ha perso W Hotel, la sua catena di alberghi a Manhattan, che è stata venduta per soli 2 milioni di dollari a un’asta di pignoramento. Istithmar fa sapere che questa operazione non rientra nella ristrutturazione del debito di Dubai World ma la perdita è ugualmente pesante. La catena di hotel era stata acquistata per 282 milioni di dollari nel 2006 e all’asta è stata comprata per appena 2 milioni di dollari da LEM Mezzanine, un fondo di private equity legato alla società immobiliare Lubert-Adler Partners.

Intanto il Financial Times fa sapere che un’emissione di bond della Dubai Electrity and Water Authority (Dewa) da 2 miliardi di dollari, con scadenza nel 2036, potrebbe essere riscattata in anticipo il prossimo 14 dicembre, quando scade anche il bond islamico da 4 miliardi di dollari di Dubai World. Dewa smentisce la notizia, anche se l’impressione è che i debiti a rischio di Dubai tendano ad allargarsi a macchia d’olio. Ieri l’agenzia internazionale Moody’s ha declassato il rating di sei società di Dubai World, portando a livello junk e cioè ’spazzaturà il rating di Dp World, uno dei gioielli di Dubai, la società che controlla 49 grandi porti in tutto il mondo e che non rientra ufficialmente nella ristrutturazione. Se anche Dp World dovesse risultare a rischio di default, il debito da ristrutturare di Dubai salirebbe a 46,7 miliardi di dollari, quasi il doppio del debito di cui finora si è annunciata la ristrutturazione.

30.11.09

La speculazione minaccia i ruderi storici dell’Aquila
di Luca Del Fratutti (Unità online)

Non riesce a darsi pace. Armando Carideo guarda le foto del somiere dell’organo storico di Santa Maria di Collemaggio de L’Aquila ed è incredulo: «Si è imbarcato - spiega -, e così piegato non serve a niente, al massimo potranno metterlo in un museo». Il somiere è il cuore di uno strumento musicale antico e nobile come l’organo. «È rimasto sepolto per mesi sotto le macerie, spuntava dai calcinacci ma nessuno se n’era accorto. Appena mi hanno fatto entrare nella basilica l’ho subito riconosciuto, e in pochi giorni lo hanno tirato fuori». Ma oramai era agosto: «Non è possibile sapere in che condizione fosse ad aprile dopo il crollo, ma certo questo tipo di danni più che dall’urto sono dovuti all’abbandono e alle intemperie, pioggia, sole, umido, caldo... ». Dal 1990 Carideo ha diretto un progetto per il recupero degli organi storici abruzzesi, un ricchissimo patrimonio accumulato attraverso i secoli. Durato oltre15anni è statoun lavoro all’avanguardia per metodologie, precisione e risultati, preso a esempio da paesi come la Germania e gli Stati Uniti. Subito dopo il sisma che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile, Carideo si è offerto volontario per salvare quegli organi, che conosce uno a uno come fossero vecchi amici: ha scritto al Ministero, al commissario straordinario Bertolaso, alle sovrintendenze. Non gli hanno neppure risposto. E lui non riesce a darsi pace, mentre unpatrimonio organario tra i più ricchi d’Italia giace nell’incuria o rischia di essere danneggiato per sempre da interventi di mani inesperte. Come per gli organi, lo stesso vale per tutto il patrimonio artistico aquilano: i palazzi storici giacciono lì e in otto mesi non si è riusciti neppure a puntellarli tutti. Una situazione paradossale, ma sempre quando s’incrociano disorganizzazione, incuria, dilettantismo, sullo sfondo si profila l’ombra di una speculazione.

SOLO MANCANZA DI FONDI?
«Se arriva la neve li squaglia quei palazzi» si è lasciato sfuggire il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente parlando del centro storico. E ha ragione: di fronte ai ritardi dal ministero dei Beni Culturali alzano le mani. Tutto dipende dal super commissario Bertolaso e dal suo vice Luciano Marchetti che si occupa dei beni culturali e che lamenta l’assenza di fondi e dice «devo lavorare a credito... ». Al contrario delle tante promesse, il governo di soldi ne ha stanziati pochini per la messa in sicurezza dei beni culturali: appena 20 milioni, ancora non a disposizione, ma che dovrebbero, forse, arrivare fino a 50. Non a caso sette ex ministri della Cultura - Buttiglione, Fisichella, Melandri, Paolucci, Ronchey, Urbani, Veltroni - hanno proposto al governo di istituire una tassa di scopo per la salvaguardia e il restauro dei beni abruzzesi. Resta però inspiegabile come mai una parte del patrimonio mobile - quadri, sculture, mobilio e via dicendo - sia ancora all’interno di edifici inagibili, alcuni non puntellati. La mancanza di fondi rischia di diventare una mezza verità, che nasconde unamezza bugia: «Il problema è completamente diverso – spiega Giuseppe Basile, storico dell’arte dell’Istituto nazionale del restauro oggi in pensione e tra i protagonisti del salvataggio e del restauro della Basilica di SanFrancesco ad Assisi, durato appena due anni - dopo il terremoto dell’Umbria e delle Marche, la competenza sui beni culturali delle zone colpite dal sisma venne affidata a Mario Serio, che era il direttore generale del ministero che si occupava di quei beni anche nella normalità. Per lui fu facile e immediato intervenire: sapeva chi chiamare, dove e come mandarlo. Oggi invece è tutto sotto gli auspici della protezione civile, che si comporta in modo militare e fa lavorare, anche come volontari, solo suoi affiliati o quelli di associazioni da lei riconosciute, come Legambiente e le Misericordie. Mi sono offerto come volontario, ho detto che mi sarei pagato l’assicurazione sulla vita per non essere di peso, ma alla fine ho capito che comunque non mi avrebbero chiamato».

LA DENUNCIA
I restauratori sono in agitazione a livello nazionale: per il terremoto dell’Umbria e delle Marche vennero mobilitati i migliori, stavolta il timore diffuso è che per gli organi musicali e per tutto il resto si facciano avanti, con spinte politiche, personaggi poco affidabili. Intanto ai danni del terremoto si stanno aggiungendo quelli dei volontari non specializzati e, colpevolmente, non seguiti da occhi esperti.Èquanto ha denunciato Gianfranco Cerasoli, funzionario del ministero e segretario generale della Uil alla riunione del Consiglio superiore per i beni e le attività culturali del 12 ottobre. «Il ministro Bondi - ha ricordato Cerasoli - ha voluto che si attrezzasse una struttura distaccata dell’Istituto Superiore del restauro presso Celano, che dovrà urgentemente intervenire non sugli effetti del terremoto, bensì su quelli dell’incuria di quantihanno e avevano responsabilità dei Beni culturali». Altro che solo mancanza di fondi, la questione è scottante, la disorganizzazione notevole, la sovrapposizione di enti esecutori all’ordine del giorno tra Comune e Vigili del fuoco. È il caso della Chiesa di Santa Maria di Paganica che, «mentre il quartiere è stato messo in sicurezza (...), è ancora scoperta e soggetta agli agenti atmosferici», come tutte le chiese del centro storico a eccezione di Collemaggio. E proprio le intense precipitazioni hanno procurato ulteriori danni a questi edifici storici, con i loro affreschi, mosaici e ornamentazioni.AOnna, città simbolo del sisma, l’organo della chiesa si era salvato appeso a l’unico muro restato in piedi e pericolante: smontato dai pompieri non è dato sapere dove sia finito. Gira oramai il motto: quello che non fece il terremoto, terminarono Bertolaso e compagnia. E dal primo gennaio per i Beni culturali sarà anche peggio, commissario diventerà il presidente della regione Abruzzo Giovanni Chiodi, affiancato nella ricostruzione dal Genio Civile, abituato a lavorare per viadotti e ponti con il cemento armato: una mano santa per gli antichi palazzi. Amen.

CUI PRODEST?
Tutto avviene in uno sconcertante silenzio, o meglio inunfragore di trionfanti proclami mediatici che non corrispondono a verità. La popolazione è stizzita perché ancora non è stato avviato il restauro degli edifici classificati «A», vale a dire poco danneggiati. Lecito chiedersi se dietro tanto caos non ci siano o stiano nascendo progetti diversi. E, di fronte all’immobilità dello Stato e all’inerzia della ricostruzione, molti cominciano a vendere le proprie abitazioni.A poco, naturalmente, spaventati che ai danni del terremoto si aggiunga il colpo di grazia di un ritardo che renderà gli edifici irrecuperabili. Giovedì 19 novembre, durante una puntata di Terra (Canale5), Toni Capuozzo parlò di un serio rischio di speculazione sul centro storico de L’Aquila. Il puzzle si chiarisce: parte attiva nella ricostruzione dell’Umbria dopo il terremoto, Marchetti quando lavorava al ministero autorizzò il progetto degli ascensori sul Vittoriano diRomadefinito uno scempio da molti esperti, e ora punta a restare in carica dopo il primo gennaio con il nuovo commissario Chiodi; a capo della Struttura tecnica di missione per sovrintendere la ricostruzione de L’Aquila è stato nominato Gaetano Fontana, inventore dei “piani di riqualificazione urbana”, dei “Prusst” e delle varianti urbanistiche in deroga ai piani regolatori e dal 2008 direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili. Così mentre interi quartieri de L’Aquila sono lasciati a marcire nell’incuria, qualcuno sente già girare le betoniere del cemento armato...

30 novembre 2009

24.11.09

Mi rifaccio la e-reputation, ecco chi cancella sul web gli errori del passato
di Marina Mastroluca (Unità)


Una volta era più semplice. Bastava magari cambiare attività e indirizzo, il resto veniva da sé: qualunque malefatta avessi commesso, finiva dolcemente in una terra di nessuno, abbandonata al passato per quanto sordido fosse. Con il web le cose non vanno più così, per nessuno. Qualunque leggerezza o errore, per non parlare di reati veri o presunti, rimane incapsulato su una pagina internet, a disposizione di chiunque si prenda la briga di indagare. E così la foto a braghe calate scattata nella propria Animal house universitaria, il film porno, il tracollo finanziario come i trascorsi politici e le opinioni di un tempo logorate dalle storia diventano una palla al piede, virtuale ma non per questo meno pesante. E allora, come rifarsi una verginità sul web?

Per difendere - restaurare o creare da zero - la e-reputation come è stato battezzato il buon nome di ciascuno di noi nello spazio web, bisogna rivolgersi agli specialisti. Le Monde ne ha individuati diversi, per ogni tasca. Molto quotata è la Hington & Klarsey, una giovane agenzia nata in Inghilterra e formata da giuristi, informatici ed esperti di comunicazione. Sono capaci di trasformare un ex trafficante di armi, autore di un libro sull’argomento e per di più coinvolto in uno scandalo politico e finanziario in un personaggio di tutt’altro profilo: un innocuo produttore di bio-carburanti, fautore convinto dello sviluppo sostenibile.

Un cambiamento di vita che sarebbe stato mortificato dalla memoria implacabile di Google. Ed invece è bastato convincere con le buone i titolari dei siti dove regnava ancora l’immagine negativa del passato ad operare un discreto colpo di spugna: cancellare informazioni ormai superate dagli eventi o almeno ritoccarle sostituendo il nome e cognome dell’interessato da pudiche ed innocue iniziali. Nel caso preso in esame, persino l’Humanité ha acconsentito a cancellare un articolo datato 1993.

L’operazione non è semplicissima. Intanto perché non sempre viene identificato il titolare del sito. Altre volte per ritoccare il passato viene chiesto in cambio un congruo assegno. Ci sono poi i blog, che spesso e volentieri rifiutano di operare una censura della memoria.

Ma a tutto c’è un rimedio. Come per esempio moltiplicare le pagine web che esprimano contenuti positivi legati alla persona che si intende riabilitare, collegati a parole chiave che possano renderli appetibili. Parole come news, market o audit diventano la chiave per risalire la china. Una volta creata la nuova immagine del cliente, non resta che pubblicarla indirizzandola verso il pubblico che si intende raggiungere, sia questo un settore economico, un’area di interesse o altro individuati seguendo gli algoritmi dei motori di ricerca. Se anche un contenuito negativo è rimasto, chi andrà a cercarselo dopo le prime quattro o cinque pagine di Google?

Naturalmente la e-verginity ha un prezzo. E rifarsi l’anima costa quanto e più che ritoccarsi qualche ruga: operazioni come quelle spiegate sopra sono alla portata di manager, gente di spettacolo o politici. Ma ci sono anche società dedicate ad un pubblico meno ambizioso, a chi magari vorrebbe semplicemente rimuovere la foto scattata quando era un ragazzo cretino o le lettere d’amore scritte per qualcuno che si è già dimenticato. Negli Stati Uniti bastano 15 dollari per far monitorare la propria reputazione da Reputation Defender, che segnala al cliente ogni volta che il suo nome o una sua foto appare su internet: rimuovere un documento costa 29 dollari. In Francia c’è una società chiamata Reputation Squad, che rivendica il diritto all’oblio, sancito dalle leggi ma non applicato dai media. E naturalmente resta sempre l’avvocato: ma trovare in tribunale il modo per cancellare il proprio passato web non è detto che sia la strada più breve.

23 novembre 2009

15.11.09

Parola di Nobel: "Legalizziamo l'uso delle droghe"
di Luca Landò

"Sa che le dico? Che la guerra contro le droghe è fallita ma nessuno lo ammette. Eppure basterebbe mettere i numeri in fila per capire che in 35 anni di onorate battaglie si è speso troppo, ottenuto niente e, cosa peggiore, ingrassato i conti delle organizzazioni criminali. Le sembra un buon risultato?".

Domanda inutile, perché il professor Becker, Gary Becker, premio Nobel per l’Economia nel 1992, non perde tempo e riparte all’attacco. «C’è solo un modo per ridurre il consumo di droghe: legalizzarle».

È dal 2001 che il professore emerito all’Università di Chicago ripete con ostinazione il proprio mantra antiproibizionista. La prima volta lo fece con un articolo su Business Week, tono pacato ma contenuto esplosivo, perché a lanciare il tema della legalizzazione non era l’ultimo degli hippy ma l’allievo di Milton Friedman. Nel 2006 entrò nei dettagli pubblicando uno studio sul Journal of Political Economy, rivista accademica per addetti ai lavori. E lì, insieme a Kevin Murhpy e Michael Grossman dimostrò con la forza dei numeri che le sue tesi avevano un fondamento economico.

«Ogni anno gli Stati Uniti destinano 40 miliardi di dollari per combattere la diffusione delle droghe. Se a tutto questo aggiungiamo i costi per la società e lo Stato - poliziotti, tribunali, carceri - il costo arriva a 100 miliardi di dollari ogni anno. È una cifra enorme. Di fronte alla quale è bene porsi una domanda: esiste un modo meno costoso e più efficace per ridurre il consumo di droghe? Il nostro studio, quello del 2006, suggeriva un’altra strada: legalizzare le droghe e applicare una tassa sul consumo. Il ragionamento è semplice: la guerra alle droghe, aumentando il rischio di chi le produce e le commercia, ha fatto lievitare il prezzo delle sostanze vendute, tanto che il prezzo alla vendita è in genere il 200% rispetto a quello effettivo. Ebbene, con una tassa del 200% su un prodotto legalmente venduto, quello stesso ricavo finirebbe nelle casse dello Stato anziché nelle tasche delle mafie. Così, invece di spendere soldi per contrastare inutilmente i produttori illegali, si avrebbero fondi a sufficienza, ad esempio, per finanziare campagne di informazione sui pericoli legati all’uso delle droghe».

Lei contesta i risultati della cosiddetta guerra alle droghe, eppure l’Onu, lo scorso giugno ha pubblicato un rapporto in cui si spiega che l’uso di eroina, cocaina e marijuana, in alcuni mercati, inizia a calare.
"È il minimo che potesse accadere, visto quello che si spende in tutto il mondo. Ma è una impostazione sbagliata. Il concetto di “guerra alle droghe” venne lanciato per la prima volta da Nixon negli anni Settanta e ribadito da tutti i presidenti, nessuno escluso. Se i risultati di cui parla l’Onu fossero legati a un’attività di uno o due anni li potrei apprezzare. Trattandosi di una guerra di 35 anni si tratta di un fallimento. Non solo, ma trattandosi di mercati illegali, le stime che circolano sono del tutto teoriche: come si fa sapere la reale produzione mondiale di droga? O il consumo? Sono numeri difficili da dimostrare. E non dimentichiamo che quando un tipo di droga cala, quasi sempre ne spunta un’altra. Quelle sintetiche, ad esempio».

In effetti l’Onu parla proprio di un aumento di queste ultime, soprattutto nel Terzo mondo.
«Restiamo su quelle “classiche”, l’oppio ad esempio: un aspetto di cui si parla poco è che la produzione e il commercio di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani e di Al Qaeda. Ora, ha senso mandare truppe in Afghanistan e, nel contempo, consentire alle forze che si intende combattere di continuare a ricevere finanziamenti? Se le droghe venissero legalizzate, quegli introiti verrebbero meno».

Alberto Maria Costa, il direttore dell’Ufficio Onu contro la Droga e il Crimine, dice che anche in presenza di un mercato legale vi sarebbe sempre un mercato parallelo controllato dal crimine.
«Prendiamo l’alcol. Negli Stati Uniti è stato illegale per quattordici anni, fino a quando il presidente Roosevelt, nel 1933, decise di legalizzarne la produzione e l’utilizzo. Bene, prima di allora whisky, gin e quant’altro erano tutti controllati da organizzazioni criminali. Al Capone, per intenderci, era un trafficante di droga. E quella droga si chiamava alcol. Con la legalizzazione nacquero distillerie legali, distributori legali, rivenditori legali. In un attimo si mandò all’aria l’intero business del crimine. Lo stesso può accadere con le droghe vere e proprie. È possibile che continui a esistere una sorta di mercato nero per alcune sostanze, ma si tratterà di piccole nicchie all’interno di un mercato tutto alla luce del sole».

Ma lei esclude ogni tipo di divieto?
«Niente affatto. Tanto per cominciare vieterei la vendita ai minori, proprio come avviene negli Stati Uniti per i liquori. Un’altra limitazione, proprio come per le bevande alcoliche, è legata alla guida: punizioni severe per chi si mette al volante sotto l’effetto di droghe mettendo a rischio la vita degli altri. E visto che parliamo di regole e restrizioni ne aggiungerei un’altra: trattandosi di prodotti legali, i produttori dovranno essere sottoposti a controlli di qualità come avviene per il settore alimentare o farmacologico. Questo eviterebbe la circolazione di sostanze tagliate e pericolose come oggi invece avviene».

Chi si oppone alle sue proposte sostiene che la liberalizzazione provocherebbe un aumento dell’uso, non una diminuzione.
«Dipende dal livello di tassa che viene applicato: se è adeguatamente alta, la domanda non cresce affatto. Anzi, trattandosi di un bene legale, viene meno quel richiamo del proibito che è una spinta, almeno tra i giovani, a far uso di droghe».

Per i minorenni però questo richiamo continuerebbe ad esserci.
«Già, ma sarebbe un divieto limitato all’età. E tutti prima o poi diventiamo adulti. L’importante è non diventare dei fuorilegge. La guerra alla droga produce devastanti effetti collaterali. Proprio in Italia avete avuto il caso di quel ragazzo pestato a morte dopo essere stato trovato con 30 grammi di hashish: è la conferma che con la guerra alle droghe si entra in una visione violenta del problema. Da noi, come da voi, le carceri scoppiano perché vengono riempite con persone che hanno avuto a che fare con la droga. E non importa quanto siano state seriamente coinvolte. Quando sei in guerra, anche le ombre diventano nemici».

Lo dica francamente: è davvero convinto che si possa legalizzare l’uso delle droghe?
«Non subito e non ovunque. Ma la strada è quella. Guardi il Messico, lo scorso agosto ha approvato una legge che permette l’uso di hashish, marijuana e persino Lsd. Non è una proposta: è una legge. E qualcosa di simile è accaduto in Argentina».

E negli Stati Uniti?
«Non siamo ancora pronti, ma qualcosa si sta muovendo. La discussone al momento riguarda solo l’uso di marijuana per scopi terapeutici, ma è già qualcosa. Non mi illudo che tutto cambi all’improvviso. Ci vuole tempo, ma sono fiducioso. L’unica droga di cui abbiamo realmente bisogno è l’uso della ragione. Quando la provi, non smetti più».

14 novembre 2009
Diouf per ventiquattro ore in sciopero dimostrativo
Lunedì si apre il vertice sulla sicurezza alimentare
Il digiuno del direttore Fao
"Facciamo di più contro la fame"



ROMA - Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, dalle 20 di ieri sera ha iniziato uno sciopero della fame di 24 ore per "sensibilizzare l' opinione pubblica sul problema dell'insicurezza alimentare" in vista del vertice della Fao che si aprirà lunedì. Lo ha annunciato lo stesso Diouf intervenendo al forum della società civile per la sovranità alimentare dei popoli riunito alla Città dell'altra economia.

"Nel mondo ci sono ormai un miliardo di persone che vivono in condizioni di sottoalimentazione e ogni sei secondi muore un bambino - ha detto Diouf - noi siamo a Roma perché vogliamo creare le opportunità per aggredire il più fondamentale dei problemi per il genere umano: la fame".

Diouf, che la scorsa notte ha dormito all'ingresso del palazzo della Fao a Roma su un materasso di gommapiuma come atto dimostrativo "per spronare i governi a fare di più per contrastare la fame nel mondo", ha lanciato un appello "a tutti gli uomini di buona volontà ad aderire allo sciopero della fame".
(14 novembre 2009)

14.11.09

Falluja, le cicogne post-belliche portano neonati deformi
di Ma.M.

Semplicemente troppi, anche se le statistiche sono approssimative e le stime si fanno ad occhio: ogni giorno sul tavolo operatorio. Troppi neonati nascono con gravi malformazioni e tumori a Falluja, la città delle bombe al fosforo bianco usate a piene mani durante due feroci battaglie nel 2004: battaglie che anche allora, nell'informazione embedded della crociata di Bush, erano apparse smisuratamente spietate nell'uso di ordigni chimici e armi fuorilegge. Un'inchiesta del Guardian tira le somme di quel che resta di quelle giornate furiose: bambini con malformazioni spinali, difetti agli arti inferiori, alla testa e una sorprendente impennata di tumori cerebrali neonatali. Un neonato con due teste, una bimba che probabilmente non potrà mai camminare per i difetti alla colonna vertebrale, un'altra piccola con complicazioni cardiache che piange ininterrottamente: soffre, dice la madre, che spera di riuscire a portarla in India per operarla. E' la casistica del dolore mostrata dal Guardian.

E' un ospedale nuovo di zecca, quello di Falluja, come non ci si aspetterebbe tra le rovine della città. I medici sono restii a mettere in relazione quel repertorio di anomalie con la guerra. I motivi, spiegano, potrebbero essere tanti, bisogna capire. per questo un gruppo di funzionari iracheni e britannici, inclusa l'ex ministra agli affari femminili dell'Iraq, Nawal Majeed a-Sammarai, hanno chiesto aiuto alle Nazioni Unite perché indaghino e soprattutto aiutino a rimuovere il materiale tossico lasciato in eredità dalla guerra. Sostanze chimiche o forse radioattive che hanno avvelenato i neonati di Falluja prima ancora che venissero al mondo. "Abbiamo visto un aumento davvero significativo delle anomalie del sistema nervoso centrale - racconta il direttore dell'ospedale Ayman Qais -. Prima del 2003 c'erano casi sporadici nei bambini. Ora la frequenza è aumentata drammaticamente". Se prima - prima della guerra - si contavano due casi ogni quindici giorni, oggi la media è di due al giorno.

Il confronto non è semplice perché per molto tempo non sono stati registrati i casi di aborti spontanei di feti malformati o di neonati nati con difetti tanto gravi da non essere compatibili con la vita. Ma la memoria dei medici riempie il vuoto dei registri. E la sensazione è comune: "prima" non c'era questo campionario di sofferenza. Un'impennata di tumori infantili si registra anche Najaf e Bassora, altre città che abbiamo imparato a conoscere. Per questo i medici di Falluja chiedono aiuto, vincendo la ritrosia a sollecitare interventi esterni. "Anche nel campo scientifico c'è stata una certa riluttanza ad aprirsi all'esterno - spiega Abdul Ahmid Salah, neurochirurgo -. Ma ormai l'abbiamo superata. Io faccio molte operazioni al giorno. Ho un solo assistente e devo fare tutto da solo". Due mani sole e troppi neonati da operare, l'eredità della guerra alle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam.

14 novembre 2009

2.11.09

Cuba, quell'embargo è immorale
di Fabio Amato
su Liberazione
del 01/11/2009

Per il 18mo anno consecutivo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto agli Stati Uniti di porre fine all'embargo commerciale nei confronti di Cuba. Questa volta il voto ha ottenuto l'approvazione di 187 paesi, ovvero la quasi totalità della comunità internazionale. Contro la risoluzione hanno votato solo Stati Uniti, Israele e Palau, mentre Micronesia e Isole Marshall si sono astenute. Il voto contro l'embargo ha ottenuto nel corso degli anni un sostegno crescente: dai 59 paesi che votarono per la sua abolizione nel 1992, si è passati a 179 nel 2004, 182 nel 2005, 184 nel 2007 e 185 lo scorso anno. Tutte le nazioni del mondo quindi, tranne quella dell'impero e il suo scudiero più fidato (e ben ripagato), chiedono la fine di un blocco economico che continua nonostante sia cambiato il mondo e quel contesto di guerra fredda dove l'embargo era nato. Ingiustificato e illegale a quel tempo, dopo la baia dei porci, risulta davvero ancora più immorale oggi. Un embargo che viola la legalità internazionale e che danneggia per milioni di dollari l'economia dell'isola caraibica. Pensate solo se il nostro paese subisse un analoga rappresaglia. Solo la faccia tosta della ambasciatrice Usa all'Onu, insieme a qualche pennivendolo nostrano, può dire che l'embargo non abbia conseguenze nell'economia di Cuba.

Nonostante l'alternarsi di presidenti alla Casa Bianca, volenterose e importanti dichiarazioni di voler dare vita ad un nuovo inizio, l'embargo rimane lì. C'è da chiedersi il perché, nonostante roboanti discorsi. Il perché è molto semplice. L'embargo a Cuba rimane come monito. Al cortile di casa. Un monito per dire attenti. Chiunque osi sfidare l'egemonia degli Usa nella regione sa a cosa potrà andare incontro. Per questo, rimane. Lo sa bene Manuel Zelaya, presidente dell'Honduras, che ha subìto un colpo di stato per aver osato mettere in discussione l'allineamento del suo paese agli Stati Uniti e, al contrario, aver cercato di unirsi al moto che sta scuotendo l'intero continente latino americano. Aveva osato, Zelaya, di unirsi all'Alba, l'alternativa bolivariana per l'america latina, ovvero a Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua. A paesi che cercano di emanciparsi dal controllo del potente vicino di casa, alla sua imposizione di politiche commerciali liberiste, allo strozzinaggio della banca mondiale e del fondo monetario internazionale, alla sudditanza delle multinazionali e alla rapina delle proprie risorse. Questa è stata la colpa per la quale gli oligarchi del suo paese, insieme ai militari, al bene placito delle gerarchie cattoliche e dell'amministrazione statunitense, hanno dato vita al colpo di stato che lo ha rimosso dal suo incarico.

Non è il disegno di riforme costituzionali da lui sostenuto la causa del colpo di stato, come qualcuno si ostina a scrivere. Questo è stato il pretesto, la scusa per dare una lezione. La vera colpa di Zelaya è stata quella di disobbedire a Washington. Per questa ragione è stato rimosso. Se non ci sono riusciti completamente, e se ora sono costretti a trovare una via d'uscita politica e negoziale (che non è affatto scontata) non è grazie a Hillary Clinton, né alle mediazioni successive dell'amministrazione Usa, che proprio ieri ha firmato l'accordo con la Colombia per l'uso di sette nuove basi militari. E' stato grazie all'imponente mobilitazione popolare che ha difeso il suo presidente e le idee di riforme sociali da lui incarnate. E' stato grazie al fatto che questa volta l'america latina è esistita come soggetto politico.
Tutti i paesi del subcontinente hanno difeso senza esitazioni il presidente legittimo e condannato l'azione golpista. Non come nel '73, quando a difendere il Cile di Allende dal colpo di stato si trovò solo Cuba. I governi dell'america latina in movimento, dal Brasile alla Bolivia, dall'Ecuador al Venezuela, ora sono uniti nel tentare di costruire un'alternativa al neoliberismo reale nel subcontinente, e nel difendere Zelaya e l'Honduras dall'ingerenza imperialista. Come sono solidali con Cuba e uniti nel richiedere all'amministrazione Usa e ad Obama un passo reale e indubbio come prova della sua finora solo dichiarata volontà di un nuovo inizio: come disse Cristina Kirschner «la fine dell'embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione» per iniziare a costruire relazioni di mutuo rispetto nel Continente. Solo allora, forse, potremo dire che non esiste più il cortile di casa.

23.10.09

Dal Financial Times
UK economy shrinks in third quarter
By Daniel Pimlott, Economics Reporter

Published: October 23 2009

The UK economy shrank by 0.4 per cent in the third quarter, indicating that the deepest recession in a generation is not yet over.
From a peak in the first quarter of 2008, the economy has now contracted by 5.9 per cent, the Office for National Statistics reported. The recession has now lasted for six quarters, the longest downturn since the second world war and on a par with that of 1979-81.
The data are a big shock after economists had expected growth to return in the quarter, with the average forecast predicting a 0.2 per cent rise in output. The Treasury forecast at the time of the Budget in April that growth would return in the fourth quarter, but the Bank of England had expected 0.1 per cent growth in the third quarter.
However, a sharp 0.7 per cent contraction in industrial production, combined with a further 0.2 per cent decline in services output, put paid to hopes that the recession might be over.
John Philpott, chief economist at the Chartered Institute of Personnel and Development, said the figures made “the recession look more like a depression”.
Alistair Darling, chancellor, said on Friday: “I’ve always been clear that growth will return at the turn of year, as my Budget forecast confirmed.
“We’re facing the worst global financial crisis and recession in 60 years. We’ve always said that we remain cautious as a result of the high degree of economic uncertainty.”
In a pointed remark aimed at the opposition Conservative party, which has argued for sharper action to reduce the budget deficit, Mr Darling said that removing fiscal stimulus now would be
”madness”.
George Osborne, the shadow chancellor, said the data showed that the UK needed a change of economic direction to get the country working again.
“There are many millions of people who will be deeply concerned to see that Britain is still in recession six months after France and Germany came out of recession. It destroys the myth that Britain was better prepared,” he told Sky News.
Sterling fell more than 1 per cent after the data were released and gilt yields dropped as expectations grew that the Bank of England would be forced to increase the quantitative easing
programme of buying government bonds. The FTSE 100 rose nearly 1.5 per cent.
The UK GDP numbers were in sharp contrast to fresh figures from the eurozone that showed private sector economic activity grew at its fastest pace for almost two years this month.
The fresh turn in the economy will raise fears that the UK may be facing a deeper and more prolonged downturn. The economies of France, Germany and Japan started growing again in the second quarter and the US looks likely to have started growing again in the third quarter.
The figures will also put pressure on the Bank of England to increase its £175bn QE programme, and on the government to offer fresh measures to boost the economy in its pre-Budget report, due within the next few weeks.
“The fact that the economy is still contracting despite the huge amount of policy stimulus supports our view that the recovery will be a long, slow process,” said Vicky Redwood of Capital Economics.
“The economy now looks unlikely to grow by more than 1 per cent at best next year. Similarly, with a huge amount of slack still building, we continue to think that deflation is a key risk.”
Business groups expressed disappointment that modest signs of improving confidence in the manufacturing and service sectors were not reflected across the economy. “This reinforces the CBI’s view that recovery, when it comes, will be fragile and volatile,” John Cridland, deputy director-general of the employers’ organisation, said.
Declines in distribution, hotels and restaurants made the largest contribution to the fall in growth.
The sharp fall in industrial output, which was deeper than the 0.5 per cent decline seen in the second quarter, came amid a particularly rapid 3.5 per cent contraction in mining and quarrying.
Construction also showed an accelerated decline in the third quarter, with output falling 1.1 per cent compared with a 0.8 per cent drop in the second quarter.
Much of the decline came from a sharp fall in distribution and from wholesale, which some economists took as a sign that destocking might have been more of a drag than expected.
“The primary culprit still seems to be firms destocking, which shows up in distribution from the output side of the accounts. This recession has seen the sharpest destocking ever seen in a
recession,” said Karen Ward, economist at HSBC.
One of the main risks to recovery is that as over-indebted individuals, businesses and banks – and, ultimately, the government – seek to reduce debt levels, the fall in demand may mean that growth will not return at a fast enough pace to reduce unemployment.
The National Institute for Economic and Social Research expects that although growth may be stronger for the next few quarters, there will be intermittent quarters of expansion and
contraction for some time to come.

19.10.09

Offensiva Sky: più televisori per tutti

La sfida tra Sky e Mediaset è a colpi di promozione nel settore delle tv a pagamento
Schermi a prezzi scontati per contrastare Mediaset



PAOLO FESTUCCIA (La Stampa)

TORINO
La notizia rimbalza da Tunisi, dove in queste ore l’amministratore delegato di Sky, Tom Mockridge ha riunito a porte chiuse i massimi esponenti della pay-tv con ottocento persone tra venditori e installatori al seguito. La parola d’ordine è aggredire il mercato. Di sterilizzare non solo, quello che in casa Sky è stato considerato un colpo a freddo, cioè l’innalzamento dell’Iva dal 10 al 20% ma anche di contendere all’avversario (cioè a Mediaset) l’intero mercato della tv a pagamento.

La prima mossa, infatti, è certamente di grande impatto: con sei euro mensili, Sky darà a tutti gli abbonati (nuovi e vecchi clienti) la possibilità di avere un televisore nuovo, ad alta definizione. Insomma, la campagna d’avvio per la «grande guerra» agli operatori del settore sta per cominciare. Già lo scorso 7 luglio il figlio di Murdoch, James, a margine della presentazione del rapporto Agcom sull’andamento del sistema televisivo in Italia - confortato dai risultati positivi di bilancio della azienda (Sky 2,6 miliardi di fatturato, Rai 2,7 miliardi e Mediaset 2,5 miliardi) - ammise commentando le cifre che, «questo» sarebbe stato «solo l’inizio».

Come dire, che, grazie alla liquidità rimasta in cassa - dopo la rinuncia da parte della Rai al rinnovo di partnership proprio con Sky - quei 55 milioni di euro l’anno risparmiati (e che invece, secondo le stime fatte in Vigilanza Rai dal direttore generale di viale Mazzini, Mauro Masi, contribuiranno a un saldo negativo in bilancio all’azienda pubblica di 200 milioni) saranno investiti in Italia per aumentare numero di clienti e quote di mercato.

Dunque Sky passa all’offensiva. Contro la Rai, per la quale il presidente del Consiglio ha previsto, ieri l’altro un calo «verticale di abbonamenti» (canone) ma soprattutto, contro Mediaset e la sua offerta a pagamento ma anche contro «l’alleanza» RaiSat e la piattaforma TivùSat. E lo fa con una promozione invasiva. Non solo offrendo con 6 euro mensili in più sull’abbonamento un televisore (Samsung o Sony «Full Hd») ma varando, una serie di offerte commerciali che, con 29 euro mensili (19 euro la quota base più 10 euro la tv), consentiranno a chi si abbona (ma anche a chi è già abbonato) di portare a casa una Tv nuova.

La promozione non sarà totalmente gratuita. Un televisore «full hd», costa dai 500 ai 900 euro. L’offerta prevede: 50 euro di ingresso e poi sei euro mensili per 3 anni. Risultato: 266 euro di spesa suddivisa in 36 mesi (nell’ipotesi di un televisore dal costo di 500 euro si spenderà circa la metà).

La sfida per la supremazia nel mercato italiano, una torta che vale oltre 8 miliardi di euro è partita: sia nei confronti della Rai, sia e soprattutto nei confronti del competitor privato. La nuova tv sarà dotata di decoder digitale terrestre incorporato, e questo già consentirà all’utente, che ancora dispone della vecchia tv analogica, di non dover ricorrere a un altro decoder eludendo così anche il nodo del criptaggio di alcuni programmi Rai (nel senso che non avrà bisogno di installare un altro decoder con un altro telecomando).

L’obiettivo vero della campagna promozionale, anche se da Sky non trapela nulla, è quello di stimolare da un lato l’opinione pubblica che la pay-tv è sì a pagamento ma anche popolare e dall’altro arrestare anche eventuali inizi di emorragie tra i clienti che guardano di buon occhio l’offerta pre-pagata di Mediaset, certamente più «flessibile» (nel senso che è anche ricaricabile) rispetto a Sky. Mediaset, infatti, con 18 euro offre la carta «Easy pay» che contiene Gallery (Mya, Steel, Joi, Disney Channel, Premium Cinema e Studio Universal) e ancora «Premium Calcio 24», tutto il meglio di Serie A, Champions League e da quest’anno l’esclusiva Europa League, la ex Coppa Uefa. Insomma, un’offerta variegata, e ampia che dimostra come il settore sia fortemente in movimento e, soprattutto, che Mediaset non sta certo a guardare.

E lo sport, con molta probabilità, sarà sempre più al centro delle contese: dal calcio con i mondiali in programma nel 2010 fino alle prossime Olimpiadi. Nel mezzo dello scontro tra i due big privati ci sarà anche la Rai: il servizio pubblico sconta la crisi pubblicitaria, come del resto tutti i media, e un progressivo assottigliamento dei proventi del canone. La guerra, dunque, c’è da scommettere sarà senza esclusioni di colpi. E non è un caso che alla convention di Tunisi organizzata in questo week-end da Sky, tra i corridoi, si parla anche di un nuovo decoder supertecnologico che presto potrebbe invadere le case degli italiani.

9.10.09

Sorpresa alla Casa Bianca e in America per la decisione del comitato norvegese
Premiati "gli sforzi straordinari per la diplomazia e la cooperazione tra i popoli"
Il Nobel per la pace a Barack Obama
Il presidente: "Non so se lo merito"


OSLO - "Sono sorpreso, onorato e profondamente commosso, ma non sono sicuro di meritare il premio". Così Barack Obama commenta davanti ai giornalisti la decisione del comitato norvegese di assegnargli il Premio Nobel per la pace 2009. "Accetto questo premio come chiamata all'azione per tutte le nazioni di fronte alle sfide del ventunesimo secolo", ha aggiunto Obama.
Il comitato del Nobel ha attribuito il premio al presidente degli Stati Uniti "per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli".

Anno decisivo Il presidente del comitato norvegese, Thorbjoern Jagland, ha citato anche "la visione e gli sforzi di Obama per un mondo senza armi nucleari". Jagland, annunciando il premio, ha detto che forse ad alcuni l'assegnazione al presidente americano può essere considerata prematura, ma che per statuto il premio va assegnato a chi ha fatto il massimo per la pace nell'anno precedente. La scelta di Obama è stata fatta all'unanimità. Il premio, che sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre, consiste in una medaglia, un diploma e un assegno da 10 milioni di corone (circa un milione di euro).

Colti di sorpresa La decisione ha colto di sorpresa la presidenza e l'America: "Wow!", è stato ad esempio il 'commento' a caldo del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, svegliato nel cuore della notte da un giornalista della Cbs per dargli la notizia del Nobel a Obama. Anche 'a freddo', i funzionari della presidenza interpellati dalla Cnn si sono detti "sorpresi". Il capo dello staff della Casa Bianca, Rahm Emanuel, ha reagito invece con una battuta: "Oslo batte Copenaghen". Il riferimento è al fatto che la presenza di Obama a Copenaghen per perorare la causa di Chicago quale sede delle Olimpiadi 2016 si era risolta in un fallimento. Rahm ha ribadito che alla Casa Bianca nessuno immaginava che Obama potesse ricevere il prestigioso riconoscimento. Gibbs, cui è toccato il compito di svegliare il presidente per comunicargli la notizia, ha riferito che Obama si è detto "profondamente onorato" e ha aggiunto di
"accettare con umiltà il riconoscimento".
La sorpresa del Paese può essere sintetizzata guardando ai media. L'agenzia di notizie AP ha titolato un pezzo, subito rilanciato dal cliccatissimo portale conservatore, "Drudgereport", "Ha vinto. Ma per cosa?". Il Wall Street Journal invece ha aperto l'edizione on-line con un sintetico giudizio: "Scelta assolutamente bizzarra".

Il discorso del presidente. Davanti ai giornalisti, Obama ha così ricostruito il momento dell'annuncio. "Bè, non è proprio il modo in cui pensavo di svegliarmi oggi. Dopo aver avuto la notizia, Malia è entrata e ha detto: papà, hai vinto il Nobel per la Pace ed è il compleanno di Bo (il cane). E poi Sasha ha aggiunto: e sta arrivando un week-end lungo. E' bene avere bambini che mantengano le cose entro un prospettiva", ha scherzato. Per poi analizzare con serietà le conseguenze e le responsabilità connesse al premio: "Non sono sicuro di meritare di essere in compagnia con persone che hanno saputo produrre tali cambiamenti, donne e uomini che hanno ispirato me e il mondo con la lora coraggiosa ricerca della pace. Ma so - ha continuato - che il premio riflette il tipo di mondo che quelle donne e uomini e tutti gli americani vogliono costruire, che dà vita alla promessa dei nostri documenti fondativi. E so anche che nella sua storia il Nobel per la pace non è stato assegnato solo per onorare risultati specifici. E' anche stato usato per enfatizzare una serie di cause. Per questo accetto questo premio, come un incitamento ad agire, un incitamento alle nazioni affinché affrontino le sfide comuni del 21esimo secolo". Obama ha poi citato alcuni dei punti cardine della sua politica, esempi delle motivazioni del comitato del Nobel: l'opposizione alle armi nucleari e l'impegno contro i cambiamenti climatici. Ma, ancora più importante, il richiamo al dialogo tra popoli, culture, religioni: "Le differenze non possono definire il modo in cui ci guardiamo. Dobbiamo cercare un nuovo inizio tra persone di diversa fede, razza, religione, basato su un mutuo rispetto e un mutuo interesse". Un esempio di stabilizzazione necessaria resta, per Obama, il conflitto israele-palestinese: "Hanno il diritto di vivere in pace nei loro Stati". Il presidente ha poi elencato le difficoltà domestiche, dalla crisi economica all'istruzione alla sanità, alle guerre che vedono impegnati migliaia di americani. "Questo premio non riguarda solo gli sforzi della mia amministrazione, ma gli sforzi coraggiosi di tanta gente nel mondo. Per questo va diviso con chiunque nel mondo lotti per la giustizia e la dignità".

Le motivazioni Tornando alle motivazioni, la commissione ha riconosciuto gli sforzi del presidente statunitense per ridurre gli arsenali nucleari e lavorare per la pace nel mondo. "Obama ha fatto molte cose - ha detto Jagland durante la conferenza stampa a Oslo - ma è stato riconosciuto soprattutto il valore delle sue dichiarazioni e degli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti, della ripresa del negoziati in Medio Oriente e la volontà degli Stati Uniti di lavorare con gli organismi internazionali".

"Molto di rado una persona è stata capace di dare speranza in un mondo migliore e di catturare l'attenzione del mondo quanto è riuscito a Obama", si legge in una nota della commissione.
Rispondendo alle domande dei giornalisti, Jagland ha ammesso che l'ambiziosa agenda del presidente Usa deve fare i conti con l'impasse in Afghanistan, con la crisi nucleare iraniana e con lo stallo in Medio Oriente, ma ha anche evidenziato il grande successo dell'unanimità raggiunta in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla risoluzione per un mondo libero dalle armi atomiche.

I precedenti Usa Obama è il terzo esponente di spicco del partito democratico americano a vincere il Nobel per la pace dopo l'ex vicepresidente Al Gore nel 2007 e Jimmy Carter nel 2002. Obama è inoltre il quarto presidente Usa (il terzo in carica) insignito del Nobel. Prima di lui lo ottennero Theodore Roosevelt (l'unico repubblicano) nel 1906, Woodrow Wilson nel 1919 e Jimmy Carter che lo ottenne nel 2002, a 22 anni dalla fine del suo mandato alla Casa Bianca. Obama ha battuto invece ogni record di rapidità nell'ottenere il premio a 10 mesi dall'insediamento.
(9 ottobre 2009)

7.10.09

Rivoluzione digitale: su internet tutti i documenti federali, compresi atti amministrativi, leggi e regolamenti

Obama mette online la banca dati dello Stato

Nasce il Federal Register 2.0. "Così gli elettori potranno vigilare"
dal corrispondente di Repubblica FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Arriva al cuore del potere dello Stato la rivoluzione digitale di Barack Obama. Il presidente impone il salto nel XXI secolo per tutti i documenti federali degli Stati Uniti. A cominciare dal "deposito" di atti più importante per l'interesse del cittadino americano: il Federal Register. E' un'istituzione che compie 73 anni, un archivio fondamentale della vita pubblica negli Stati Uniti.

Lì dentro sono custodite le tracce di tutti gli atti amministrativi, le decisioni delle authority federali, e anche le proposte di riforma delle leggi e dei regolamenti. D'ora in avanti questa immensa banca-dati del potere statale avrà una nuova dimensione elettronica. Tutti i cittadini potranno accedere all'archivio degli atti della pubblica amministrazione online. Una svolta battezzata dalla Casa Bianca "Federal Register 2.0".

La trasformazione è affidata a due uffici, il Government Printing Office (un equivalente del nostro Poligrafico dello Stato) e la National Archives and Records Administration. A guidare il progetto c'è un braccio della Casa Bianca, la task force di Obama dedicata alla "Open Government Initiative".

Federal Register 2.0 ha già una finestra aperta, attivata immediatamente e accessibile sul sito www. GPO. gov. Un modo per accrescere il controllo degli elettori sui meccanismi più intimi della macchina del potere statale.

"Questo lancio - ha detto Aneesh Chopra che è il guru tecnologico della Casa Bianca - realizza la promessa del presidente di coinvolgere più direttamente gli americani nelle attività del governo. Introdurremo innovazioni innumerevoli per assicurare che ogni voce sia ascoltata sui problemi che stanno a cuore ai cittadini". Un impegno a sviluppare anche la dimensione interattiva di questo progetto.

Tra le operazioni tecniche che accompagnano questo cantiere c'è l'adozione del formato Xml per tutte le pubblicazioni ufficiali, in modo da facilitare la loro versione digitale.

"In passato - spiega il direttore del Federal Register Ray Mosley - questo archivio nazionale era pensato e rivolto soprattutto ai legislatori e agli esperti, ora sarà possibile personalizzarlo in una infinità varietà di modi. Saranno gli utenti, non il governo, a decidere che uso farne".

L'archivio federale risolve anche un problema di voluminosità. L'ultima edizione dei suoi aggiornamenti l'anno scorso era arrivata a contenere 32.000 documenti di 80.000 pagine. Il formato digitale consentirà di compattarlo e al tempo stesso creare degli strumenti di accesso selettivo e motori di ricerca per semplificare la raccolta delle notizie.

"Federal Register 2.0" è l'ultimo passo fatto dall'Amministrazione Obama in una serie di sforzi dedicati a rendere più trasparente l'azione di governo, e utilizzare le potenzialità delle nuove tecnologie per arricchire il dialogo con gli elettori. E' una promessa cruciale da mantenere per questo presidente.

Obama non può dimenticare che la sua vittoria elettorale nel novembre scorso fu facilitata dall'irruzione di nuove generazioni nell'arena politica, e di nuovi strumenti per organizzare la militanza politica di base, con un ruolo senza precedenti svolto proprio da Internet.

6 ottobre 2009

6.10.09

L' Italia discrimina immigrati e Rom
Repubblica — 15 settembre 2009


ROMA - «In molti casi le autorità respingono i migranti e li lasciano affrontare stenti e pericoli, se non la morte, come se stessero respingendo barche cariche di rifiuti pericolosi». Non poteva essere più dura la presa di posizione dell' Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, sulle politiche di respingimento in mare. Non solo. In Italia, secondo le Nazioni Unite ci sarebbe «un' abbondante documentazione di trattamenti degradanti nei confronti dei Rom». E mentre per la Farnesina le critiche «non sono evidentemente rivolte all' Italia», il presidente della Camera, Gianfranco Fini invitaa non «avere paura dell' immigrazione, né dubitare sulla possibilità di una vera integrazione». Le politiche migratorie del governo italiano tornano così sul banco degli imputati. Dopo le richieste di chiarimento della Commissione Ue, le critiche dell' Unhcr, del Vaticano e delle organizzazioni umanitarie, è ora la volta dell' Onu. L' Alto Commissario peri diritti umani condanna i respingim e n t i d e g l i i m m i g r a t i «abbandonati e respinti senza verificare in modo adeguato se stanno fuggendo da persecuzioni, in violazione del diritto internazionale». In un discorso previsto per oggi e anticipato a Ginevra, la Pillay cita il caso del gommone di eritrei rimasto senza soccorsi tra Libia, Malta e Italia, ad agosto scorso e spiega che «partendo dal presupposto che le imbarcazioni in difficoltà trasportano migranti, le navi le oltrepassano ignorando le suppliche d' aiuto, in violazione del diritto internazionale». La Pillay chiede che cessi «la pratica di detenzione obbligatoria dei migranti, la loro criminalizzazione e il loro maltrattamento nel contesto del controllo delle frontiere». E ancora: «In Italia - denuncia l' Onu - vi è abbondante documentazione di discriminazioni e trattamenti degradanti nei confronti della popolazione Rom». Discriminazioni diffuse, secondo l' Onu, anche in altri 16 Paesi europei, dall' Ungheria alla Francia, dall' Irlanda al Portogallo. La reazione della Farnesina? «Il richiamo alle violazioni del diritto internazionale - si legge in una nota- nonè evidentemente rivolto all' Italia». Secondo il ministero degli Esteri, infatti «le regole del diritto internazionale costituiscono il caposaldo dell' azione del governo italiano». E poi «l' Italia è il Paese che ha salvato il maggior numero di vite umane nel Mediterraneo». In una relazione consegnata al Comitato del Consiglio d' Europa per la prevenzione della tortura, il governo sostiene inoltre di non adottare respingimenti, ma di applicare le norme contenute nel «protocollo opzionale dell' Onu sul traffico di persone via terra, mare, aria» Le critiche della rappresentante delle Nazioni Unite infiammano la polemica tra maggioranza e opposizione. «Il prestigio dell' Italia - afferma Rosy Bindi (Pd) - è irrimediabilmente sfigurato. Contro il governo parlano i fatti che non si possono nascondere con la propaganda. O qualcuno pensa di tappare la bocca anche all' Onu?». Secondo il candidato segretario del Pd, Pierluigi Bersani, il governo rischia «figuracce internazionali». Replica il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: «L' Italia sta attuando una politica di controllo dell' immigrazione clandestina che rispetta pienamente tutte le norme del diritto internazionale». Sul tema immigrazione, torna intanto Gianfranco Fini: «Pensare alla storia di Nancy Pelosi (l' italoamericana speaker della Camera dei rappresentanti Usa, ndr) dimostra che non occorre avere paura dell' immigrazione, né dubitare sulla possibilità di una vera integrazione». - VLADIMIRO POLCHI

1.10.09

Nucleare, svolta nel negoziato
faccia a faccia tra Usa e Iran

dall'inviato di Repubblica VINCENZO NIGRO


Il tavolo a Ginevra
GINEVRA - Sono positivi i primi segnali che arrivano dai colloqui fra il gruppo dei "5+1" con l'Iran. Questa mattina dopo la sessione plenaria in cui la delegazione iraniana ha incontrato i 5+1 (i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania), il negoziatore iraniano Sade Jalili si è riunito assieme ai suoi colleghi con la delegazione americana guidata dall'ambasciatore William Burns. Dai tempi della rivoluzione iraniana del 1979 questo è l'incontro bilaterale più importante che americani ed iraniani siano mai riusciti ad organizzare.

Nel primo pomeriggio si era capito che rispetto alle dichiarazioni della vigilia, l'Iran è arrivato a Ginevra con un atteggiamento negoziale possibilista. Il negoziatore Jalili nel suo discorso introduttivo ha affrontato il tema nucleare per rivendicare il diritto del suo paese all'energia atomica ma comunque accettando di discutere la questione e non rifiutando di farlo come Teheran aveva minacciato alla vigilia dei negoziati.

Un diplomatico occidentale ha detto ad Al Jazeera che "gli iraniani si sono mostrati morbidi dopo che noi abbiamo detto chiaramente che non eravamo venuti a Ginevra per ascoltare le loro idee sui problemi del mondo, ma che abbiamo due quesiti a cui esigiamo una risposta: se l'Iran vuole discutere del programma nucleare e se è disponibile per un'ispezione immediata del nuovo impianto di Qom". La risposta di Jalili non sarebbe stata una chiusura netta, anche se è vero che gli iraniani sono maestri nel negoziato e soprattutto nella tattica del rinvio di qualsiasi decisione.

Dopo 3 ore di discussione gli inviati hanno sospeso i colloqui per il pranzo e per permettere l'incontro Usa-Iran. Secondo Cristina Gallach, portavoce del "ministro degli Esteri" Ue Javier Solana, "la discussione si è svolta in un clima positivo e corretto". Le delegazioni si sono lasciate la porta aperta a qualsiasi sviluppo: il summit potrebbe continuare anche con altri incontri bilaterali e soprattutto tutte le delegazioni hanno mantenuto per stanotte le prenotazioni degli alberghi di Ginevra, in previsione del fatto che il negoziato possa terminare con un breakfast domattina.

Altro segnale interessante è arrivato da Washington, dove ieri sera il ministro degli Esteri iraniano si era spostato da New York. Secondo l'agenzia iraniana Irna, nella capitale Usa Manoucher Mottaki ha incontrato due deputati della Commissione esteri per discutere proprio della possibilità del nucleare. Il ministro aveva accompagnato a New York il presidente Ahmadinejad ed era rimasto negli Usa per altri incontri a margine dell'assemblea generale dell'Onu. Gli Usa gli hanno concesso un visto per visitare anche Washington con la scusa di un incontro con i diplomatici dell'ambasciata pachistana che rappresenta gli interessi iraniani negli Usa. Ma il vero motivo di questa tappa a Washington è stato l'incontro con i due deputati americani, la prima riunione fra un ministro iraniano e due congressmen dai tempi dell'amministrazione Clinton.

Ieri, prima di partire per Ginevra, il capo-negoziatore Jalili (che alla vigilia del nuovo governo era stato dato anche come possibile ministro degli Esteri) aveva detto di essere pronto a "creare un clima positivo". Lo stesso presidente Ahmadinejad, dopo aver ripetuto con forza che "l'Iran non tratterà sul suo diritto all'energia nucleare", aveva avanzato proposte per ricevere dall'estero l'uranio arricchito necessario per il programma nazionale. Una proposta a cui la Francia ha detto di essere "piuttosto favorevole": il ministro degli Esteri di Parigi Bernard Kouchner ne ha parlato in queste ore con i dirigenti russi che ha incontrato a Mosca. L'anno scorso il presidente iraniano Ahmadinejad aveva rifiutato completamente l'idea che l'uranio arricchito potesse essere fornito all'Iran dall'estero, la stessa proposta che sarebbe disposto a prendere in considerazione.

(1 ottobre 2009)
Super Mario e la sfida di Francoforte


MASSIMO GIANNINI

Mario Draghi candidato dal Wall Street Journal alla guida della Banca centrale europea è un grande riconoscimento politico per l’Italia. E soprattutto un importante risarcimento morale per la Banca d’Italia. Dopo gli Anni di Fango, quando i furbetti del quartierino entravano a Palazzo Koch dagli ingressi secondari per non farsi vedere, Via Nazionale torna finalmente agli onori del mondo. Se lo merita l’istituzione, per quello che ha sempre rappresentato nella travagliata storia repubblicana. E se lo merita anche l’attuale governatore, per come ha saputo ridarle lustro, e riprofilarla all’insegna degli unici valori che contano per una banca centrale: l’autorevolezza, la responsabilità, l’indipendenza.
Auguriamo a «Super Mario» di vincere la sfida di Francoforte. Lo standing internazionale non gli manca: è riconosciuto da tutti, fin dai primi anni ‘90, quando Business Week lo definiva (già allora) «l’uomo più potente d’Italia». I tempi coincidono: il mandato di Trichet alla Bce scade a fine 2011, quello di Draghi in Banca d’Italia nel gennaio 2012. Chi ha filo da tessere, tesserà. Il governo italiano, di qui alla scadenza, saprà lavorare per una soluzione così prestigiosa per la nazione? Una volta tanto, crediamo di sì. Per una ragione molto semplice, anche se assai provinciale. Draghi alla Bce, per parecchi politicanti di casa nostra, sarebbe un magnifico promoveatur ut amoveatur. In questa stagione di sedicenti «complotti giudoplutomassonici» e di farneticanti «congiure dei Poteri Forti» (evocate dai Berlusconi, i Tremonti e i Brunetta) il centrodestra guarda al governatore come a una pericolosa «minaccia».
È lui, suo malgrado, l’eterno candidato a guidare da premier un ipotetico «governo tecnicoistituzionale», o a gestire un superministero dell’Economia in un ipotetico «governo di salute pubblica». Per questo, nella logica assurda ed asfittica del Palazzo, è molto meglio un Draghi a Francoforte che un Draghi a Roma. Così, l’interesse becero della politica coincide con l’interesse superiore del Paese. È magra, ma almeno stavolta è una consolazione.
m.giannini@repubblica.it

16.9.09

ECONOMIA

Seduta positiva anche in Asia, solo Shanghai in lieve calo per realizzi

Borse ancora in rialzo
sull'"effetto Bernanke"

Dopo il nuovo discorso ottimistico del presidente della Fed i mercati europei iniziano il pomeriggio con guadagni superiori al punto percentuale

Borse ancora in rialzo sull'"effetto Bernanke"

ROMA - Partenza positiva per le Borse europee, sulla scia dei guadagni registrati ieri a Wall Street e in Asia stamane, ad eccezione di Shangai vittima di realizzi.

Sulle prime rilevazioni, Milano sale dello 0,65%, Francoforte dello 0,42%, Parigi dello 0,50, Amsterdam dell'1,03, Bruxelles dello 0,77, Londra dello 0,63 e Madrid dello 0,68.

Guadagni fra l'1 e quasi il 2% per piazze asiatiche, poco meno l'India (0,71), mentre Sydney ha fatto un balzo di 2,42%. Unica eccezione Shanghai che ha perso lo 0,77. Bene anche il Giappone con lo 0,52%: i guadagni di Tokyo hanno tuttavia frenato sul finale, sulla cautela degli investitori per il nuovo governo che verrà presentato dal primo ministro Yukio Hatoyama, che assumerà oggi l'incarico.

L'ottimismo sulle prospettive di rilancio dell'economia globale è stato scaturito anche dalle parole ieri del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, secondo il quale, un anno dopo il fallimento di Lehman Brothers, la recessione è probabilmente finita. Questo ha fatto chiudere a Wall Street in positivo una giornata in cui la Borsa americana era apparsa assai poco reattiva a vari dati favorevoli sull'economia Usa.

Sul mercato valutario riprende la salita dell'euro, che arriva a sfiorare la soglia degli 1,47 dollari e segna così il nuovo top per il 2009. Tra le commodities, il petrolio resta forte in prossimità dei 71 dollari mentre l'oro vola su nuovi massimi dell'anno.

Superano il punto percentuale di guadagno i mercati europei all'inizio del pomeriggio, confortati anche dai future Usa in rialzo. Meglio di tutti va Bruxelles con l'1,8%, seguita da Londra con quasi l'1,5. Piazza Affari ha superato l'1,2 e nel paniere delle blue chip il miglior titolo è Tenaris con un guadagno di oltre il 4,5%, seguita da Buzzi e Impregilo con il 3,5.
(16 settembre 2009)

13.9.09

Oltre la crisi? Cinque spie della nuova fiducia

Dal commercio internazionale a Wall Street. E anche la cassa integrazione rallenta

MILANO — Fosse solo per il miglioramento della produzio ne industriale italiana sarebbe presto per osare parlare di se gnali di speranza, sprazzi se non di bel tempo stabile alme no di giornate migliori all’oriz zonte nel barometro dell’econo mia. Eppure, verrebbe da dire a un anno dal crac Lehman. In una doppietta che non ci riusci va da tempo fuori dalle vasche e dalle medaglie tricolore della Pellegrini ieri è arrivato anche il superindice Ocse di luglio a certificare per l’Italia il miglior balzo all’interno dell’area (+2,7% su mese e +8% su anno per l’Italia contro un +1,5% su mese e 1,9 su anno per tutti i Paesi Ocse). Poi c’è il segnale — delicatissimo, certo, da pren dere con le pinze a maggior ra gione prima di un autunno cal do — della cassa integrazione che in agosto, dati Inps, è cala ta del 40,6% rispetto al luglio. Anche se sarebbe un errore di menticare che l’uso dell’am­mortizzatore sociale rispetto a un anno prima rimane impres sionante (+ 526,5%).

Uscendo dai confini naziona li i segnali continuano. Sembra un percorso per chi è in cerca di numeri fiduciosi: lo sapeva te che le navi che trasportano sulle rotte mondiali del com mercio abiti, meccanica, tecno logia, giocattoli e container pie ni di merce sono tornate a viag giare ai livelli del 2006 (Baltic Dry Index)? O che l’indice Dow Jones di Wall Street negli ulti mi sei mesi è salito del 38,4% facendo guadagnare chi ha avu to il fegato di puntare?

C’è anche il colosso Cina a proiettare segni di reazione con una produzione industria le che in agosto rispetto all’an no precedente, quindi in una fa se appena pre-Lehman, è salita del 12,3%. Chiaro che non si può e non si deve dimenticare che se quella economia del 2008 era all’apice di una bolla e di un baratro, ora questi nume ri sono anche il risultato del «doping» degli aiuti statali. Non si tratta di costruirsi ad hoc un iter ottimistico che po trebbe addirittura risultare ne gativo. O di credere, meno che mai, al potere taumaturgico dei numeri. Se non altro la crisi ha insegnato questo. Anche perché sarebbe esercizio fin troppo facile cercare altri indici di segno opposto. Si tratta di provare a interrogarsi sui giu sti contrappesi da usare per da re un quadro equilibrato. Il paradigma di tutto questo sembra essere la Cig: vero che su base annua l’esplosione fa impressione e la situazione ri mane non solo complessa ma anche delicata. Ma è anche ve ro che il conteggio viene fatto sulle ore autorizzate e che quel le effettivamente usate dalle aziende, il cosiddetto tiraggio, è di poco superiore al 60%. Co me dire: gli accordi sono stati fatti con una maglia abbastan za larga, giustificata dall’incer tezza della situazione. E per concludere: negativa è negati va. Ma un tantino meno. Come il movimento dei con tainer: sono ancora vive le im magini e le fotografie dei porti desolati, senza movimento merci, e dei portuali con le braccia incrociate solo pochi mesi fa.

D’altra parte ancora a luglio la contrazione dei traffici tra Asia ed Europa rispetto allo stesso mese del 2008 è stata del 17% secondo i dati dell’asso ciazione europea che riunisce gli operatori dello shipping. Ma rispetto all’inizio dell’anno il miglioramento c'è stato: +33%. Trend confermato anche dall’indice Baltico che misura il movimento delle merci a livel lo mondiale (petrolio e liquidi esclusi) e che in sei mesi, tra al ti e bassi, è salito del 24,6% pur restando molto distante dai pic chi del 2007. Cosa fare di que sti segnali? Pericoloso giunge re a conclusioni. Anche se è sta to lo stesso John Maynard Key nes a occupare un capitolo del la sua opera principale, la «Teo ria generale», per affrontare il tema della fiducia e riflettere sulle maggiori possibilità di far cela per un imprenditore «otti mista » rispetto a un collega «pessimista».

Massimo Sideri
12 settembre 2009

7.9.09


Battaglia di carta a San Francisco

Contributo di Marco Gambaro, pubblicato oggi sulla pagina opinioni del Corriere della Sera

Nonostante la crisi dei quotidiani statunitensi venga letta soprattutto in relazione alla disponibilità gratuita delle notizie su Internet e allo sviluppo della rete come mezzo pubblicitario, molte battaglie si giocano ancora sui terreni tradizionali. Sia Wall Street Journal che New York Times hanno annunciato di voler aprire delle edizioni locali nella regione di San Francisco dove il Chronicle, che nel 2008 ha perso 50 milioni di dollari, è candidato alla vendita o alla chiusura e intanto ha ridotto la copertura redazionale.

Se effettivamente chiudesse la Baia resterebbe senza quotidiani a pagamento visto che l'Examiner è passato qualche tempo fa alla distribuzione gratuita. La Baia rappresenta l'area fuori dalla città di origine dove sia il Journal che il Nyt vendono il maggior numero di copie, rispettivamente 98 mila e 49 mila giornaliere. Con l'aggiunta di un po' di pagine locali potrebbero intercettare lettori e inserzionisti pubblicitari, sfruttando le economie di scala della loro edizione nazionale per la quale i costi fissi sono già spesati.

La notizia va inquadrata nell'organizzazione del mercato dei quotidiani Usa che è fortemente radicato nella dimensione locale e dove i quotidiani nazionali sono una rarità. Dopo un lungo percorso di consolidamento sono rimasti circa 1.400 quotidiani che nella quasi totalità sono monopolisti nella città di edizione. Solo le grandi metropoli hanno più di una testata e a differenza del mercato italiano ed europeo quasi nessun giornale cerca lettori e raccoglie pubblicità fuori dalla sua città.

Del resto i quotidiani hanno abbandonato da tempo l'idea di competere per la pubblicità nazionale, che viene intercettata soprattutto da televisione e periodici, mentre si concentrano su quella locale che rappresenta oltre l'80% della loro raccolta. Il calo dei lettori e della pubblicità mette in crisi le testate più deboli e chi ha le spalle più larghe cerca di sfruttare i propri punti di forza, in questo caso il marchio e le grandi redazioni nazionali, anche modificando il modo tradizionale di fare i giornali. La Baia potrebbe costituire il laboratorio di una riorganizzazione dell'industria dei quotidiani.

Marco Gambaro