30.11.09

La speculazione minaccia i ruderi storici dell’Aquila
di Luca Del Fratutti (Unità online)

Non riesce a darsi pace. Armando Carideo guarda le foto del somiere dell’organo storico di Santa Maria di Collemaggio de L’Aquila ed è incredulo: «Si è imbarcato - spiega -, e così piegato non serve a niente, al massimo potranno metterlo in un museo». Il somiere è il cuore di uno strumento musicale antico e nobile come l’organo. «È rimasto sepolto per mesi sotto le macerie, spuntava dai calcinacci ma nessuno se n’era accorto. Appena mi hanno fatto entrare nella basilica l’ho subito riconosciuto, e in pochi giorni lo hanno tirato fuori». Ma oramai era agosto: «Non è possibile sapere in che condizione fosse ad aprile dopo il crollo, ma certo questo tipo di danni più che dall’urto sono dovuti all’abbandono e alle intemperie, pioggia, sole, umido, caldo... ». Dal 1990 Carideo ha diretto un progetto per il recupero degli organi storici abruzzesi, un ricchissimo patrimonio accumulato attraverso i secoli. Durato oltre15anni è statoun lavoro all’avanguardia per metodologie, precisione e risultati, preso a esempio da paesi come la Germania e gli Stati Uniti. Subito dopo il sisma che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile, Carideo si è offerto volontario per salvare quegli organi, che conosce uno a uno come fossero vecchi amici: ha scritto al Ministero, al commissario straordinario Bertolaso, alle sovrintendenze. Non gli hanno neppure risposto. E lui non riesce a darsi pace, mentre unpatrimonio organario tra i più ricchi d’Italia giace nell’incuria o rischia di essere danneggiato per sempre da interventi di mani inesperte. Come per gli organi, lo stesso vale per tutto il patrimonio artistico aquilano: i palazzi storici giacciono lì e in otto mesi non si è riusciti neppure a puntellarli tutti. Una situazione paradossale, ma sempre quando s’incrociano disorganizzazione, incuria, dilettantismo, sullo sfondo si profila l’ombra di una speculazione.

SOLO MANCANZA DI FONDI?
«Se arriva la neve li squaglia quei palazzi» si è lasciato sfuggire il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente parlando del centro storico. E ha ragione: di fronte ai ritardi dal ministero dei Beni Culturali alzano le mani. Tutto dipende dal super commissario Bertolaso e dal suo vice Luciano Marchetti che si occupa dei beni culturali e che lamenta l’assenza di fondi e dice «devo lavorare a credito... ». Al contrario delle tante promesse, il governo di soldi ne ha stanziati pochini per la messa in sicurezza dei beni culturali: appena 20 milioni, ancora non a disposizione, ma che dovrebbero, forse, arrivare fino a 50. Non a caso sette ex ministri della Cultura - Buttiglione, Fisichella, Melandri, Paolucci, Ronchey, Urbani, Veltroni - hanno proposto al governo di istituire una tassa di scopo per la salvaguardia e il restauro dei beni abruzzesi. Resta però inspiegabile come mai una parte del patrimonio mobile - quadri, sculture, mobilio e via dicendo - sia ancora all’interno di edifici inagibili, alcuni non puntellati. La mancanza di fondi rischia di diventare una mezza verità, che nasconde unamezza bugia: «Il problema è completamente diverso – spiega Giuseppe Basile, storico dell’arte dell’Istituto nazionale del restauro oggi in pensione e tra i protagonisti del salvataggio e del restauro della Basilica di SanFrancesco ad Assisi, durato appena due anni - dopo il terremoto dell’Umbria e delle Marche, la competenza sui beni culturali delle zone colpite dal sisma venne affidata a Mario Serio, che era il direttore generale del ministero che si occupava di quei beni anche nella normalità. Per lui fu facile e immediato intervenire: sapeva chi chiamare, dove e come mandarlo. Oggi invece è tutto sotto gli auspici della protezione civile, che si comporta in modo militare e fa lavorare, anche come volontari, solo suoi affiliati o quelli di associazioni da lei riconosciute, come Legambiente e le Misericordie. Mi sono offerto come volontario, ho detto che mi sarei pagato l’assicurazione sulla vita per non essere di peso, ma alla fine ho capito che comunque non mi avrebbero chiamato».

LA DENUNCIA
I restauratori sono in agitazione a livello nazionale: per il terremoto dell’Umbria e delle Marche vennero mobilitati i migliori, stavolta il timore diffuso è che per gli organi musicali e per tutto il resto si facciano avanti, con spinte politiche, personaggi poco affidabili. Intanto ai danni del terremoto si stanno aggiungendo quelli dei volontari non specializzati e, colpevolmente, non seguiti da occhi esperti.Èquanto ha denunciato Gianfranco Cerasoli, funzionario del ministero e segretario generale della Uil alla riunione del Consiglio superiore per i beni e le attività culturali del 12 ottobre. «Il ministro Bondi - ha ricordato Cerasoli - ha voluto che si attrezzasse una struttura distaccata dell’Istituto Superiore del restauro presso Celano, che dovrà urgentemente intervenire non sugli effetti del terremoto, bensì su quelli dell’incuria di quantihanno e avevano responsabilità dei Beni culturali». Altro che solo mancanza di fondi, la questione è scottante, la disorganizzazione notevole, la sovrapposizione di enti esecutori all’ordine del giorno tra Comune e Vigili del fuoco. È il caso della Chiesa di Santa Maria di Paganica che, «mentre il quartiere è stato messo in sicurezza (...), è ancora scoperta e soggetta agli agenti atmosferici», come tutte le chiese del centro storico a eccezione di Collemaggio. E proprio le intense precipitazioni hanno procurato ulteriori danni a questi edifici storici, con i loro affreschi, mosaici e ornamentazioni.AOnna, città simbolo del sisma, l’organo della chiesa si era salvato appeso a l’unico muro restato in piedi e pericolante: smontato dai pompieri non è dato sapere dove sia finito. Gira oramai il motto: quello che non fece il terremoto, terminarono Bertolaso e compagnia. E dal primo gennaio per i Beni culturali sarà anche peggio, commissario diventerà il presidente della regione Abruzzo Giovanni Chiodi, affiancato nella ricostruzione dal Genio Civile, abituato a lavorare per viadotti e ponti con il cemento armato: una mano santa per gli antichi palazzi. Amen.

CUI PRODEST?
Tutto avviene in uno sconcertante silenzio, o meglio inunfragore di trionfanti proclami mediatici che non corrispondono a verità. La popolazione è stizzita perché ancora non è stato avviato il restauro degli edifici classificati «A», vale a dire poco danneggiati. Lecito chiedersi se dietro tanto caos non ci siano o stiano nascendo progetti diversi. E, di fronte all’immobilità dello Stato e all’inerzia della ricostruzione, molti cominciano a vendere le proprie abitazioni.A poco, naturalmente, spaventati che ai danni del terremoto si aggiunga il colpo di grazia di un ritardo che renderà gli edifici irrecuperabili. Giovedì 19 novembre, durante una puntata di Terra (Canale5), Toni Capuozzo parlò di un serio rischio di speculazione sul centro storico de L’Aquila. Il puzzle si chiarisce: parte attiva nella ricostruzione dell’Umbria dopo il terremoto, Marchetti quando lavorava al ministero autorizzò il progetto degli ascensori sul Vittoriano diRomadefinito uno scempio da molti esperti, e ora punta a restare in carica dopo il primo gennaio con il nuovo commissario Chiodi; a capo della Struttura tecnica di missione per sovrintendere la ricostruzione de L’Aquila è stato nominato Gaetano Fontana, inventore dei “piani di riqualificazione urbana”, dei “Prusst” e delle varianti urbanistiche in deroga ai piani regolatori e dal 2008 direttore generale dell’Associazione nazionale costruttori edili. Così mentre interi quartieri de L’Aquila sono lasciati a marcire nell’incuria, qualcuno sente già girare le betoniere del cemento armato...

30 novembre 2009

24.11.09

Mi rifaccio la e-reputation, ecco chi cancella sul web gli errori del passato
di Marina Mastroluca (Unità)


Una volta era più semplice. Bastava magari cambiare attività e indirizzo, il resto veniva da sé: qualunque malefatta avessi commesso, finiva dolcemente in una terra di nessuno, abbandonata al passato per quanto sordido fosse. Con il web le cose non vanno più così, per nessuno. Qualunque leggerezza o errore, per non parlare di reati veri o presunti, rimane incapsulato su una pagina internet, a disposizione di chiunque si prenda la briga di indagare. E così la foto a braghe calate scattata nella propria Animal house universitaria, il film porno, il tracollo finanziario come i trascorsi politici e le opinioni di un tempo logorate dalle storia diventano una palla al piede, virtuale ma non per questo meno pesante. E allora, come rifarsi una verginità sul web?

Per difendere - restaurare o creare da zero - la e-reputation come è stato battezzato il buon nome di ciascuno di noi nello spazio web, bisogna rivolgersi agli specialisti. Le Monde ne ha individuati diversi, per ogni tasca. Molto quotata è la Hington & Klarsey, una giovane agenzia nata in Inghilterra e formata da giuristi, informatici ed esperti di comunicazione. Sono capaci di trasformare un ex trafficante di armi, autore di un libro sull’argomento e per di più coinvolto in uno scandalo politico e finanziario in un personaggio di tutt’altro profilo: un innocuo produttore di bio-carburanti, fautore convinto dello sviluppo sostenibile.

Un cambiamento di vita che sarebbe stato mortificato dalla memoria implacabile di Google. Ed invece è bastato convincere con le buone i titolari dei siti dove regnava ancora l’immagine negativa del passato ad operare un discreto colpo di spugna: cancellare informazioni ormai superate dagli eventi o almeno ritoccarle sostituendo il nome e cognome dell’interessato da pudiche ed innocue iniziali. Nel caso preso in esame, persino l’Humanité ha acconsentito a cancellare un articolo datato 1993.

L’operazione non è semplicissima. Intanto perché non sempre viene identificato il titolare del sito. Altre volte per ritoccare il passato viene chiesto in cambio un congruo assegno. Ci sono poi i blog, che spesso e volentieri rifiutano di operare una censura della memoria.

Ma a tutto c’è un rimedio. Come per esempio moltiplicare le pagine web che esprimano contenuti positivi legati alla persona che si intende riabilitare, collegati a parole chiave che possano renderli appetibili. Parole come news, market o audit diventano la chiave per risalire la china. Una volta creata la nuova immagine del cliente, non resta che pubblicarla indirizzandola verso il pubblico che si intende raggiungere, sia questo un settore economico, un’area di interesse o altro individuati seguendo gli algoritmi dei motori di ricerca. Se anche un contenuito negativo è rimasto, chi andrà a cercarselo dopo le prime quattro o cinque pagine di Google?

Naturalmente la e-verginity ha un prezzo. E rifarsi l’anima costa quanto e più che ritoccarsi qualche ruga: operazioni come quelle spiegate sopra sono alla portata di manager, gente di spettacolo o politici. Ma ci sono anche società dedicate ad un pubblico meno ambizioso, a chi magari vorrebbe semplicemente rimuovere la foto scattata quando era un ragazzo cretino o le lettere d’amore scritte per qualcuno che si è già dimenticato. Negli Stati Uniti bastano 15 dollari per far monitorare la propria reputazione da Reputation Defender, che segnala al cliente ogni volta che il suo nome o una sua foto appare su internet: rimuovere un documento costa 29 dollari. In Francia c’è una società chiamata Reputation Squad, che rivendica il diritto all’oblio, sancito dalle leggi ma non applicato dai media. E naturalmente resta sempre l’avvocato: ma trovare in tribunale il modo per cancellare il proprio passato web non è detto che sia la strada più breve.

23 novembre 2009

15.11.09

Parola di Nobel: "Legalizziamo l'uso delle droghe"
di Luca Landò

"Sa che le dico? Che la guerra contro le droghe è fallita ma nessuno lo ammette. Eppure basterebbe mettere i numeri in fila per capire che in 35 anni di onorate battaglie si è speso troppo, ottenuto niente e, cosa peggiore, ingrassato i conti delle organizzazioni criminali. Le sembra un buon risultato?".

Domanda inutile, perché il professor Becker, Gary Becker, premio Nobel per l’Economia nel 1992, non perde tempo e riparte all’attacco. «C’è solo un modo per ridurre il consumo di droghe: legalizzarle».

È dal 2001 che il professore emerito all’Università di Chicago ripete con ostinazione il proprio mantra antiproibizionista. La prima volta lo fece con un articolo su Business Week, tono pacato ma contenuto esplosivo, perché a lanciare il tema della legalizzazione non era l’ultimo degli hippy ma l’allievo di Milton Friedman. Nel 2006 entrò nei dettagli pubblicando uno studio sul Journal of Political Economy, rivista accademica per addetti ai lavori. E lì, insieme a Kevin Murhpy e Michael Grossman dimostrò con la forza dei numeri che le sue tesi avevano un fondamento economico.

«Ogni anno gli Stati Uniti destinano 40 miliardi di dollari per combattere la diffusione delle droghe. Se a tutto questo aggiungiamo i costi per la società e lo Stato - poliziotti, tribunali, carceri - il costo arriva a 100 miliardi di dollari ogni anno. È una cifra enorme. Di fronte alla quale è bene porsi una domanda: esiste un modo meno costoso e più efficace per ridurre il consumo di droghe? Il nostro studio, quello del 2006, suggeriva un’altra strada: legalizzare le droghe e applicare una tassa sul consumo. Il ragionamento è semplice: la guerra alle droghe, aumentando il rischio di chi le produce e le commercia, ha fatto lievitare il prezzo delle sostanze vendute, tanto che il prezzo alla vendita è in genere il 200% rispetto a quello effettivo. Ebbene, con una tassa del 200% su un prodotto legalmente venduto, quello stesso ricavo finirebbe nelle casse dello Stato anziché nelle tasche delle mafie. Così, invece di spendere soldi per contrastare inutilmente i produttori illegali, si avrebbero fondi a sufficienza, ad esempio, per finanziare campagne di informazione sui pericoli legati all’uso delle droghe».

Lei contesta i risultati della cosiddetta guerra alle droghe, eppure l’Onu, lo scorso giugno ha pubblicato un rapporto in cui si spiega che l’uso di eroina, cocaina e marijuana, in alcuni mercati, inizia a calare.
"È il minimo che potesse accadere, visto quello che si spende in tutto il mondo. Ma è una impostazione sbagliata. Il concetto di “guerra alle droghe” venne lanciato per la prima volta da Nixon negli anni Settanta e ribadito da tutti i presidenti, nessuno escluso. Se i risultati di cui parla l’Onu fossero legati a un’attività di uno o due anni li potrei apprezzare. Trattandosi di una guerra di 35 anni si tratta di un fallimento. Non solo, ma trattandosi di mercati illegali, le stime che circolano sono del tutto teoriche: come si fa sapere la reale produzione mondiale di droga? O il consumo? Sono numeri difficili da dimostrare. E non dimentichiamo che quando un tipo di droga cala, quasi sempre ne spunta un’altra. Quelle sintetiche, ad esempio».

In effetti l’Onu parla proprio di un aumento di queste ultime, soprattutto nel Terzo mondo.
«Restiamo su quelle “classiche”, l’oppio ad esempio: un aspetto di cui si parla poco è che la produzione e il commercio di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani e di Al Qaeda. Ora, ha senso mandare truppe in Afghanistan e, nel contempo, consentire alle forze che si intende combattere di continuare a ricevere finanziamenti? Se le droghe venissero legalizzate, quegli introiti verrebbero meno».

Alberto Maria Costa, il direttore dell’Ufficio Onu contro la Droga e il Crimine, dice che anche in presenza di un mercato legale vi sarebbe sempre un mercato parallelo controllato dal crimine.
«Prendiamo l’alcol. Negli Stati Uniti è stato illegale per quattordici anni, fino a quando il presidente Roosevelt, nel 1933, decise di legalizzarne la produzione e l’utilizzo. Bene, prima di allora whisky, gin e quant’altro erano tutti controllati da organizzazioni criminali. Al Capone, per intenderci, era un trafficante di droga. E quella droga si chiamava alcol. Con la legalizzazione nacquero distillerie legali, distributori legali, rivenditori legali. In un attimo si mandò all’aria l’intero business del crimine. Lo stesso può accadere con le droghe vere e proprie. È possibile che continui a esistere una sorta di mercato nero per alcune sostanze, ma si tratterà di piccole nicchie all’interno di un mercato tutto alla luce del sole».

Ma lei esclude ogni tipo di divieto?
«Niente affatto. Tanto per cominciare vieterei la vendita ai minori, proprio come avviene negli Stati Uniti per i liquori. Un’altra limitazione, proprio come per le bevande alcoliche, è legata alla guida: punizioni severe per chi si mette al volante sotto l’effetto di droghe mettendo a rischio la vita degli altri. E visto che parliamo di regole e restrizioni ne aggiungerei un’altra: trattandosi di prodotti legali, i produttori dovranno essere sottoposti a controlli di qualità come avviene per il settore alimentare o farmacologico. Questo eviterebbe la circolazione di sostanze tagliate e pericolose come oggi invece avviene».

Chi si oppone alle sue proposte sostiene che la liberalizzazione provocherebbe un aumento dell’uso, non una diminuzione.
«Dipende dal livello di tassa che viene applicato: se è adeguatamente alta, la domanda non cresce affatto. Anzi, trattandosi di un bene legale, viene meno quel richiamo del proibito che è una spinta, almeno tra i giovani, a far uso di droghe».

Per i minorenni però questo richiamo continuerebbe ad esserci.
«Già, ma sarebbe un divieto limitato all’età. E tutti prima o poi diventiamo adulti. L’importante è non diventare dei fuorilegge. La guerra alla droga produce devastanti effetti collaterali. Proprio in Italia avete avuto il caso di quel ragazzo pestato a morte dopo essere stato trovato con 30 grammi di hashish: è la conferma che con la guerra alle droghe si entra in una visione violenta del problema. Da noi, come da voi, le carceri scoppiano perché vengono riempite con persone che hanno avuto a che fare con la droga. E non importa quanto siano state seriamente coinvolte. Quando sei in guerra, anche le ombre diventano nemici».

Lo dica francamente: è davvero convinto che si possa legalizzare l’uso delle droghe?
«Non subito e non ovunque. Ma la strada è quella. Guardi il Messico, lo scorso agosto ha approvato una legge che permette l’uso di hashish, marijuana e persino Lsd. Non è una proposta: è una legge. E qualcosa di simile è accaduto in Argentina».

E negli Stati Uniti?
«Non siamo ancora pronti, ma qualcosa si sta muovendo. La discussone al momento riguarda solo l’uso di marijuana per scopi terapeutici, ma è già qualcosa. Non mi illudo che tutto cambi all’improvviso. Ci vuole tempo, ma sono fiducioso. L’unica droga di cui abbiamo realmente bisogno è l’uso della ragione. Quando la provi, non smetti più».

14 novembre 2009
Diouf per ventiquattro ore in sciopero dimostrativo
Lunedì si apre il vertice sulla sicurezza alimentare
Il digiuno del direttore Fao
"Facciamo di più contro la fame"



ROMA - Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, dalle 20 di ieri sera ha iniziato uno sciopero della fame di 24 ore per "sensibilizzare l' opinione pubblica sul problema dell'insicurezza alimentare" in vista del vertice della Fao che si aprirà lunedì. Lo ha annunciato lo stesso Diouf intervenendo al forum della società civile per la sovranità alimentare dei popoli riunito alla Città dell'altra economia.

"Nel mondo ci sono ormai un miliardo di persone che vivono in condizioni di sottoalimentazione e ogni sei secondi muore un bambino - ha detto Diouf - noi siamo a Roma perché vogliamo creare le opportunità per aggredire il più fondamentale dei problemi per il genere umano: la fame".

Diouf, che la scorsa notte ha dormito all'ingresso del palazzo della Fao a Roma su un materasso di gommapiuma come atto dimostrativo "per spronare i governi a fare di più per contrastare la fame nel mondo", ha lanciato un appello "a tutti gli uomini di buona volontà ad aderire allo sciopero della fame".
(14 novembre 2009)

14.11.09

Falluja, le cicogne post-belliche portano neonati deformi
di Ma.M.

Semplicemente troppi, anche se le statistiche sono approssimative e le stime si fanno ad occhio: ogni giorno sul tavolo operatorio. Troppi neonati nascono con gravi malformazioni e tumori a Falluja, la città delle bombe al fosforo bianco usate a piene mani durante due feroci battaglie nel 2004: battaglie che anche allora, nell'informazione embedded della crociata di Bush, erano apparse smisuratamente spietate nell'uso di ordigni chimici e armi fuorilegge. Un'inchiesta del Guardian tira le somme di quel che resta di quelle giornate furiose: bambini con malformazioni spinali, difetti agli arti inferiori, alla testa e una sorprendente impennata di tumori cerebrali neonatali. Un neonato con due teste, una bimba che probabilmente non potrà mai camminare per i difetti alla colonna vertebrale, un'altra piccola con complicazioni cardiache che piange ininterrottamente: soffre, dice la madre, che spera di riuscire a portarla in India per operarla. E' la casistica del dolore mostrata dal Guardian.

E' un ospedale nuovo di zecca, quello di Falluja, come non ci si aspetterebbe tra le rovine della città. I medici sono restii a mettere in relazione quel repertorio di anomalie con la guerra. I motivi, spiegano, potrebbero essere tanti, bisogna capire. per questo un gruppo di funzionari iracheni e britannici, inclusa l'ex ministra agli affari femminili dell'Iraq, Nawal Majeed a-Sammarai, hanno chiesto aiuto alle Nazioni Unite perché indaghino e soprattutto aiutino a rimuovere il materiale tossico lasciato in eredità dalla guerra. Sostanze chimiche o forse radioattive che hanno avvelenato i neonati di Falluja prima ancora che venissero al mondo. "Abbiamo visto un aumento davvero significativo delle anomalie del sistema nervoso centrale - racconta il direttore dell'ospedale Ayman Qais -. Prima del 2003 c'erano casi sporadici nei bambini. Ora la frequenza è aumentata drammaticamente". Se prima - prima della guerra - si contavano due casi ogni quindici giorni, oggi la media è di due al giorno.

Il confronto non è semplice perché per molto tempo non sono stati registrati i casi di aborti spontanei di feti malformati o di neonati nati con difetti tanto gravi da non essere compatibili con la vita. Ma la memoria dei medici riempie il vuoto dei registri. E la sensazione è comune: "prima" non c'era questo campionario di sofferenza. Un'impennata di tumori infantili si registra anche Najaf e Bassora, altre città che abbiamo imparato a conoscere. Per questo i medici di Falluja chiedono aiuto, vincendo la ritrosia a sollecitare interventi esterni. "Anche nel campo scientifico c'è stata una certa riluttanza ad aprirsi all'esterno - spiega Abdul Ahmid Salah, neurochirurgo -. Ma ormai l'abbiamo superata. Io faccio molte operazioni al giorno. Ho un solo assistente e devo fare tutto da solo". Due mani sole e troppi neonati da operare, l'eredità della guerra alle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam.

14 novembre 2009

2.11.09

Cuba, quell'embargo è immorale
di Fabio Amato
su Liberazione
del 01/11/2009

Per il 18mo anno consecutivo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto agli Stati Uniti di porre fine all'embargo commerciale nei confronti di Cuba. Questa volta il voto ha ottenuto l'approvazione di 187 paesi, ovvero la quasi totalità della comunità internazionale. Contro la risoluzione hanno votato solo Stati Uniti, Israele e Palau, mentre Micronesia e Isole Marshall si sono astenute. Il voto contro l'embargo ha ottenuto nel corso degli anni un sostegno crescente: dai 59 paesi che votarono per la sua abolizione nel 1992, si è passati a 179 nel 2004, 182 nel 2005, 184 nel 2007 e 185 lo scorso anno. Tutte le nazioni del mondo quindi, tranne quella dell'impero e il suo scudiero più fidato (e ben ripagato), chiedono la fine di un blocco economico che continua nonostante sia cambiato il mondo e quel contesto di guerra fredda dove l'embargo era nato. Ingiustificato e illegale a quel tempo, dopo la baia dei porci, risulta davvero ancora più immorale oggi. Un embargo che viola la legalità internazionale e che danneggia per milioni di dollari l'economia dell'isola caraibica. Pensate solo se il nostro paese subisse un analoga rappresaglia. Solo la faccia tosta della ambasciatrice Usa all'Onu, insieme a qualche pennivendolo nostrano, può dire che l'embargo non abbia conseguenze nell'economia di Cuba.

Nonostante l'alternarsi di presidenti alla Casa Bianca, volenterose e importanti dichiarazioni di voler dare vita ad un nuovo inizio, l'embargo rimane lì. C'è da chiedersi il perché, nonostante roboanti discorsi. Il perché è molto semplice. L'embargo a Cuba rimane come monito. Al cortile di casa. Un monito per dire attenti. Chiunque osi sfidare l'egemonia degli Usa nella regione sa a cosa potrà andare incontro. Per questo, rimane. Lo sa bene Manuel Zelaya, presidente dell'Honduras, che ha subìto un colpo di stato per aver osato mettere in discussione l'allineamento del suo paese agli Stati Uniti e, al contrario, aver cercato di unirsi al moto che sta scuotendo l'intero continente latino americano. Aveva osato, Zelaya, di unirsi all'Alba, l'alternativa bolivariana per l'america latina, ovvero a Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua. A paesi che cercano di emanciparsi dal controllo del potente vicino di casa, alla sua imposizione di politiche commerciali liberiste, allo strozzinaggio della banca mondiale e del fondo monetario internazionale, alla sudditanza delle multinazionali e alla rapina delle proprie risorse. Questa è stata la colpa per la quale gli oligarchi del suo paese, insieme ai militari, al bene placito delle gerarchie cattoliche e dell'amministrazione statunitense, hanno dato vita al colpo di stato che lo ha rimosso dal suo incarico.

Non è il disegno di riforme costituzionali da lui sostenuto la causa del colpo di stato, come qualcuno si ostina a scrivere. Questo è stato il pretesto, la scusa per dare una lezione. La vera colpa di Zelaya è stata quella di disobbedire a Washington. Per questa ragione è stato rimosso. Se non ci sono riusciti completamente, e se ora sono costretti a trovare una via d'uscita politica e negoziale (che non è affatto scontata) non è grazie a Hillary Clinton, né alle mediazioni successive dell'amministrazione Usa, che proprio ieri ha firmato l'accordo con la Colombia per l'uso di sette nuove basi militari. E' stato grazie all'imponente mobilitazione popolare che ha difeso il suo presidente e le idee di riforme sociali da lui incarnate. E' stato grazie al fatto che questa volta l'america latina è esistita come soggetto politico.
Tutti i paesi del subcontinente hanno difeso senza esitazioni il presidente legittimo e condannato l'azione golpista. Non come nel '73, quando a difendere il Cile di Allende dal colpo di stato si trovò solo Cuba. I governi dell'america latina in movimento, dal Brasile alla Bolivia, dall'Ecuador al Venezuela, ora sono uniti nel tentare di costruire un'alternativa al neoliberismo reale nel subcontinente, e nel difendere Zelaya e l'Honduras dall'ingerenza imperialista. Come sono solidali con Cuba e uniti nel richiedere all'amministrazione Usa e ad Obama un passo reale e indubbio come prova della sua finora solo dichiarata volontà di un nuovo inizio: come disse Cristina Kirschner «la fine dell'embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione» per iniziare a costruire relazioni di mutuo rispetto nel Continente. Solo allora, forse, potremo dire che non esiste più il cortile di casa.