2.11.09

Cuba, quell'embargo è immorale
di Fabio Amato
su Liberazione
del 01/11/2009

Per il 18mo anno consecutivo, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto agli Stati Uniti di porre fine all'embargo commerciale nei confronti di Cuba. Questa volta il voto ha ottenuto l'approvazione di 187 paesi, ovvero la quasi totalità della comunità internazionale. Contro la risoluzione hanno votato solo Stati Uniti, Israele e Palau, mentre Micronesia e Isole Marshall si sono astenute. Il voto contro l'embargo ha ottenuto nel corso degli anni un sostegno crescente: dai 59 paesi che votarono per la sua abolizione nel 1992, si è passati a 179 nel 2004, 182 nel 2005, 184 nel 2007 e 185 lo scorso anno. Tutte le nazioni del mondo quindi, tranne quella dell'impero e il suo scudiero più fidato (e ben ripagato), chiedono la fine di un blocco economico che continua nonostante sia cambiato il mondo e quel contesto di guerra fredda dove l'embargo era nato. Ingiustificato e illegale a quel tempo, dopo la baia dei porci, risulta davvero ancora più immorale oggi. Un embargo che viola la legalità internazionale e che danneggia per milioni di dollari l'economia dell'isola caraibica. Pensate solo se il nostro paese subisse un analoga rappresaglia. Solo la faccia tosta della ambasciatrice Usa all'Onu, insieme a qualche pennivendolo nostrano, può dire che l'embargo non abbia conseguenze nell'economia di Cuba.

Nonostante l'alternarsi di presidenti alla Casa Bianca, volenterose e importanti dichiarazioni di voler dare vita ad un nuovo inizio, l'embargo rimane lì. C'è da chiedersi il perché, nonostante roboanti discorsi. Il perché è molto semplice. L'embargo a Cuba rimane come monito. Al cortile di casa. Un monito per dire attenti. Chiunque osi sfidare l'egemonia degli Usa nella regione sa a cosa potrà andare incontro. Per questo, rimane. Lo sa bene Manuel Zelaya, presidente dell'Honduras, che ha subìto un colpo di stato per aver osato mettere in discussione l'allineamento del suo paese agli Stati Uniti e, al contrario, aver cercato di unirsi al moto che sta scuotendo l'intero continente latino americano. Aveva osato, Zelaya, di unirsi all'Alba, l'alternativa bolivariana per l'america latina, ovvero a Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua. A paesi che cercano di emanciparsi dal controllo del potente vicino di casa, alla sua imposizione di politiche commerciali liberiste, allo strozzinaggio della banca mondiale e del fondo monetario internazionale, alla sudditanza delle multinazionali e alla rapina delle proprie risorse. Questa è stata la colpa per la quale gli oligarchi del suo paese, insieme ai militari, al bene placito delle gerarchie cattoliche e dell'amministrazione statunitense, hanno dato vita al colpo di stato che lo ha rimosso dal suo incarico.

Non è il disegno di riforme costituzionali da lui sostenuto la causa del colpo di stato, come qualcuno si ostina a scrivere. Questo è stato il pretesto, la scusa per dare una lezione. La vera colpa di Zelaya è stata quella di disobbedire a Washington. Per questa ragione è stato rimosso. Se non ci sono riusciti completamente, e se ora sono costretti a trovare una via d'uscita politica e negoziale (che non è affatto scontata) non è grazie a Hillary Clinton, né alle mediazioni successive dell'amministrazione Usa, che proprio ieri ha firmato l'accordo con la Colombia per l'uso di sette nuove basi militari. E' stato grazie all'imponente mobilitazione popolare che ha difeso il suo presidente e le idee di riforme sociali da lui incarnate. E' stato grazie al fatto che questa volta l'america latina è esistita come soggetto politico.
Tutti i paesi del subcontinente hanno difeso senza esitazioni il presidente legittimo e condannato l'azione golpista. Non come nel '73, quando a difendere il Cile di Allende dal colpo di stato si trovò solo Cuba. I governi dell'america latina in movimento, dal Brasile alla Bolivia, dall'Ecuador al Venezuela, ora sono uniti nel tentare di costruire un'alternativa al neoliberismo reale nel subcontinente, e nel difendere Zelaya e l'Honduras dall'ingerenza imperialista. Come sono solidali con Cuba e uniti nel richiedere all'amministrazione Usa e ad Obama un passo reale e indubbio come prova della sua finora solo dichiarata volontà di un nuovo inizio: come disse Cristina Kirschner «la fine dell'embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione» per iniziare a costruire relazioni di mutuo rispetto nel Continente. Solo allora, forse, potremo dire che non esiste più il cortile di casa.

1 commento:

Claudia ha detto...

Credo che se il presidente degli USA, Barak Obama, vuole essere veramente credibile, occorre che dai proclami passi ai fatti.
Se gli Stati Uniti avessero votato contro il mantenimento dell'embargo avrebbero dimostrato che l'atteggiamento americano nei confronti del mondo ed in particolare dell'America Latina, sta veramente cambiando, invece sembra proprio che tutto resti come prima. In Sintesi, qualunque presidente sieda alla Casa Bianca, sia esso democratico o repubblicano, il discorso non cambia. Tutto o quasi, resta immutato.